di Luca Filidei
Sono sincero, lo spunto per questo articolo è stato piuttosto casuale, anche se in fondo ho pensato diverse volte a quella connessione che intercorre tra il surf reale e quello rappresentato per esempio in qualche film. Di per sé, in una proiezione perfetta, la differenza non ci dovrebbe nemmeno essere, con le telecamere che riprendono semplicemente ciò che è. Punto e basta.
Del resto cult come Big Wednesday (J. Milius, 1978) ci sono stati, questo bisogna ammetterlo. Ma poi è avvenuto anche qualcos’altro: Point Break (K. Bigelow, 1991) per esempio. No, non intendo comparare due “big” di Hollywood, piuttosto sottolineare la differenza tra la descrizione del duo Milius & Aaberg e quella di Rick King e W. Peter Lliff, sceneggiatori del secondo film. Cos’è cambiato tra queste due produzioni? Tanto, risponderebbero alcuni. Tantissimo, rispondo io. Da Big Wednesday, un’opera praticamente formativa e con dei chiari risvolti attinenti alle contraddizioni in corso – tanto da essere considerata la “part two” in simultanea di Apocalypse Now (F. Coppola, 1979, sceneggiato tra l’altro dallo stesso Milius) – si è passati a Point Break, perfetto (action)movie in stile 80s e 90s, con i surfisti più in gamba della zona trasformati in una banda di rapinatori. Un processo comprensibile visto le epoche differenti, ma anche interessante da analizzare per notare l’avvio di stereotipi che hanno poi definito l’immagine del surfista-tipo.
Innanzitutto concentriamoci sul classico surfer ribelle costruito ad hoc da diversi script. Un must reso celebre proprio da Point Break per poi essere reinterpretato anche in produzioni degli anni 2000: il decennio che, più di altri, è stato caratterizzato da atteggiamenti fracassoni, eccessivi, sporchi, così come estremamente fragili. Sì, c’è un pizzico di nostalgia nel descrivere quel periodo per chi era un teen, ma per ricollegarci al discorso di prima vi dice niente Lords of Dogtown? (C. Hardwicke, 2005, okay si parla di skate ma ci siamo capiti). Eppure in quegli stessi anni viene proiettato nelle sale anche Blue Crush (J. Stockwell, 2002), praticamente incentrato sul mondo del surf competitivo. Quindi perché alcuni pensano ai surfer ancora attraverso un profilo da Bay Boys?
Lo stereotipo del surf-villan ispirato dal localismo
Prima di rispondere facciamo un po’ di chiarezza. E partiamo dal principio. Ovvero quello spunto piuttosto casuale che accennavo all’inizio. Mi spiego meglio: tra una notizia e l’altra scopro che a Cannes è stato presentato un nuovo film dal titolo The Surfer. Incuriosito cerco qualche informazione e capisco di trovarmi di fronte all’incipit perfetto per un potenziale articolo. Vi traduco qui uno stralcio della trama letta dal sito del festival: “Nicolas Cage (eh sì, è lui il protagonista) interpreta un padre che ritorna nella sua città natale in Australia dopo aver trascorso diversi anni negli Stati Uniti. Quando però accompagna suo figlio alla spiaggia dove è cresciuto, un gruppo di surfisti lo bloccano impedendogli l’accesso. Umiliato, il padre non ha la minima intenzione di lasciar perdere…”. Inciso importante: non ho ancora visto il film che dicono sia molto ben fatto, ma detto questo è interessante l’utilizzo di alcune frasi nelle varie recensioni come “ragazzi maleducati e prepotenti che presidiano la spiaggia e la considerano di loro proprietà” e ancora “tribù di surfisti intolleranti, cattivi, violenti” oppure “un gruppo di uomini del posto che hanno adottato una regola di chiusura territoriale rigida e minacciosa, accogliendo in spiaggia solo gente del luogo”.
A questo punto è inevitabile pensare che l’immagine del surfista ribelle (a dirla leggera) sia ancora ben presente nell’immaginario collettivo. Di Point Break insomma non c’è stato soltanto il remake, ma anche un “paste and copy” di atteggiamenti, soprattutto stereotipi. In fondo perché non immaginare lo stesso tipo di trama con il football australiano? La risposta è semplice: perché il surfer-villain è estremamente cool, oltre a far richiamare nella mente un check che viene approvato senza il minimo dubbio. Nel passato c’è già stata una banda di surfisti. Il presente non avrà problemi ad accoglierne un’altra. Torniamo però un secondo negli anni ’90. Point Break in fondo raffigurava qualcosa che, escludendo la parte più estrema, c’era anche nella realtà. Il localismo non era un’invenzione. Perché, d’accordo, c’erano i Beach Boys, ma in California si potevano incrociare anche i già citati Bay Boys, che avevano piantato una specie di bandiera da conquistadores sulla spiaggia di Palos Verdes (c’è pure un film con Jennifer Gardner sull’argomento, The Tribes of Palos Verdes, 2017). E se tornassimo più indietro – negli anni Sessanta –, magari nella vacanziera terra di Hawaii Five-0, troveremmo non solo Mai Tai e spirito Aloha, ma soprattutto “(surf)guerre” spietate per ottenere il predominio sulle onde del North Shore. Voglio dire, se non fosse stato per l’intervento di Eddie Aikau, ai futuri Bronzed Aussies non sarebbe andata così bene.
Quindi ecco il primo collegamento (vero) tra realtà e cinema. Su questo niente da dire. Anche se poi si è costruito un nuovo filone, paradossalmente comedy, che si è legato a quello che stavamo analizzando. Eh sì, perché il surfista nell’immaginario di molti è ancora “beach bum” (a proposito, andate a vedervi proprio il film Beach Bum con uno straordinario Matthew McConaughey). Per tante persone – soprattutto a Hollywood – l’aria da “quarterback” (molto) ribelle non si è scollegata dalla figura del surfer, a cui si è aggiunto, in particolari casi, anche un pizzico di aria “zen”. Da North Shore (W. Phelps, 1987) si passa così a Surfer, Dude (S. Bindler, 2008): il surf diventa mainstream. Pensate anche all’evoluzione del marketing. Pepsi realizza degli spot commerciali a tema “surfer” divertendosi ad inserire (e a lanciare) molte mode di quegli anni. E poi, giusto, c’è quella scritta alla fine del video: “The choice of a new generation” con sullo sfondo un surfista seduto sulla spiaggia che si scola la sua bibita. Il messaggio è chiaro: i giovani staranno da questo lato della barricata. E questo non solo in California (dove praticamente tutti hanno una tavola, vi ricordate The O.C.?) ma anche nel resto del mondo.
Si parla di forza del linguaggio visivo, di enfasi della grafica, di loghi reiterati con delle variazioni: il surf (o l’immagine che si ha di esso) ispira lo stile di intere generazioni. Quello che fa, quasi in simbiosi, lo skateboarding e poi forse l’NBA-style. Nello skate comunque c’era Tony Hawk, il videogame di Tony Hawk, e poi Sk8er Boi, che ha fatto entrare la figura dello skater in tante camerette. Il leitmotiv è uno solo: ribellione. Ci si allontana infatti dai classici sport. Niente professionismo da queste parti. Solo bombolette spray e cartelli “Surfers Only” come nello spot 2005 della Pepsi (quello con Ronaldinho per intenderci). Comedy e il “vecchio” surfer-villain che si fondono insieme, dominando la scena a dispetto di alcuni film che descrivono più appropriatamente il contesto presente o passato. L’australiano Drift (M. O’Neill, B. Nott, 2013) del resto ha il merito di averci provato, così come il recente e apprezzato Ocean Boy (T. Atkins, 2022), con il maggiore dei fratelli Hemsworth nel cast.
Quell’attrazione fatale per la figura del ribelle.
Eppure, nonostante tutto questo, eccoci di nuovo a The Surfer, dove i surfisti (al di là che Cage è lui stesso un surfer) vengono identificati come chi sbarra la strada, gli alt verso una dolce e spensierata vacanza. E qui una provocazione: nel 2024 è ancora questo il surf? Certo, come già scritto il localismo esiste. Ma dove si sta dirigendo davvero questo sport? Il tema ribellione/underground è ancora così presente? In questo caso mi viene utile trascrivere un commento di Luca Basilico, uno skater con cui ho avuto il piacere di entrare in contatto. Ricordo che lui disse qualcosa di simile: “A molti skater non interessano le competizioni. Probabilmente non sanno neanche chi è l’attuale campione del mondo”. Un pensiero particolare. Di certo non applicabile alla NFL per gli statunitensi, tanto per fare un esempio. Chi ha vinto l’ultimo Super Bowl sarebbe la domanda più strana per loro, probabilmente penserebbero di avere davanti un alieno o un T-800.
Tuttavia, qualcosa mi dice che anche nel surf le cose sono ben cambiate dai tempi degli X-Games. Basta guardare la quantità di like e commenti che i post “competitivi” ottengono su Instagram. Il ritiro di Kelly? Sì. No. Forse. Quante persone hanno scritto la loro sull’argomento? Che ha vinto undici titoli mondiali lo sa ormai chiunque. In caso contrario altra figura da Arnold in versione Terminator. Gli appassionati di surf – ma non solo, anche grazie alle Olimpiadi – sono in fondo sempre più interessati al mondo pro. Fate caso a Erin Brooks. Non è ancora entrata nel Tour ma è già una celebrità. Ecco perché ritengo che se c’è un qualcosa da rappresentare del surf moderno (ma anche di quello storico) siano il pathos delle gare, la difficoltà nel trovare gli sponsor, il sostegno della famiglia e degli amici, i surf trip in giro per il mondo, i rapporti con la lega, piuttosto che il surfista visto come classico villain o “quarterback” oceanico. Con la WSL il surf si è distanziato dallo skate. E se la lega è infarcita di personalità provenienti dal mondo NFL un motivo ci sarà.
La WSL ha portato il surf in una nuova era, l’underground è un lontano ricordo.
La strada che si sta percorrendo è quella. Niente “underground style”. Niente Bobby Martinez. Se escludiamo Gabe Medina durante le interviste ci si sta avvicinando a quelle post-GP dei piloti di Formula 1. Compostezza. Sponsor in primo piano. Una scenografia però perfetta per dei potenziali storytelling, come già confermato dalla bella serie Make or Break. I temi in fondo ci sarebbero. Eccome. E produrre un film che ricostruisce il dietro le quinte di qualche competizione potrebbe funzionare. Perché il surf ora sembra essere diventato in gran parte questo. La WSL la fa da padrona. E la (nuova) esplosione del surf femminile sembra essere stata progettata ad hoc per fornire altri script. Su Tuttologic abbiamo già riportato storie pazzesche. Quella di Paul Sampson ad esempio. Oppure quella della campionessa del mondo ‘93 Pauline Menczer. E in nessuna delle due il fulcro è rappresentato da cartelli che vietano l’accesso alla spiaggia o da rapine in stile Come un tuono. Basterebbe (si fa per dire, eh) un bravo sceneggiatore, un regista con buona esperienza e un’attrice/attore protagonista dalle caratteristiche giuste… e il mondo vedrebbe tutto un lato diverso del surf, forse il più realistico e attuale.
Sarebbe bello no?