di Luca Filidei
Ci sono personaggi che non hanno bisogno di presentazioni. Alcuni li chiamano icone. Altri restano talmente colpiti dalle loro imprese da sconfinare oltre i confini dello sport. Solitamente hanno sempre vinto qualcosa di prestigioso, eppure la loro grandezza si misura specialmente per il loro carisma, per quello che hanno saputo apportare positivamente alla loro disciplina sportiva e magari (perché no?) persino al mondo. Una descrizione che combacia perfettamente con la surfista che abbiamo avuto l’onore di intervistare: la Campionessa del Mondo 1993, Pauline Menczer. La sua storia ha qualcosa di eccezionale, quasi fosse una sceneggiatura di un film prodotto da qualche Studios di Hollywood (e magari sarà così in futuro). La potete leggere in questo articolo ma anche sulla sua biografia Surf Like A Woman, scritta a quattro mani con Luke Benedictus e appena pubblicata. Ora però è inutile dilungarsi. Meglio lasciare spazio alla World Champ ’93 che, vi assicuro, ha qualcosa di assurdo da raccontare.
Pauline la tua storia è davvero incredibile e di grande ispirazione per qualsiasi persona. Quando penso in generale al surf, l’aiuto della famiglia mi sembra rivesta un ruolo centrale. Mi riferisco per esempio a Caitlin Simmers e a suo fratello Timo, ma anche al supporto che Caroline Marks ha avuto dal papà imprenditore e surfista. Ho letto che nella tua famiglia però non c’era un grande know-how sul surf e, aspetto ben più rilevante, che hai perso padre e nonno all’età di cinque anni. Come hai trovato le motivazioni per iniziare la tua carriera e persistere – vincendo addirittura il titolo ’93 –, affrontando anche una serie di problemi fisici ed economici?
Avevo tanta motivazione perché ero praticamente ossessionata dal surf e pensavo che diventare professionista mi avrebbe regalato una carriera straordinaria. Volevo dimostrare al mondo che, nonostante l’artrite di cui già soffrivo, potevo vincere e superare la disabilità fisica. Inoltre, avevo anche scoperto che l’oceano è una terapia davvero potente e allo stesso tempo una via di fuga da quello che ti circonda. La mia famiglia mi aiutava organizzando persino vendite in garage di oggetti che trovavamo sulla spiaggia o in strada. Mia madre era estremamente intraprendente e mi ha sempre incoraggiato e insegnato a fare qualcosa al di fuori dell’ordinario, qualcosa di speciale. In realtà tutta la mia famiglia, compresa mia nonna, era ossessionata dallo stare in acqua. Nuotavano nell’oceano praticamente ogni giorno. Fin da bambini abbiamo trascorso tutta l’infanzia in spiaggia, perché mia madre si era resa conto che con due coppie di gemelli c’era molta meno confusione se mangiavamo tutti lì.
Molti stanno parlando della nuova generazione di surfiste del CT (aggiungiamoci anche Erin Brooks). Di sicuro Pipe ’24 (ma anche Teahupo’o) è stato il contest che ha cambiato la percezione del Women’s Championship Tour. Okay, su questo sono d’accordo. Ma allo stesso tempo mi piacerebbe che la WSL ricordasse le “original girls” come te, Jodie Cooper, Wendy Botha, Pam Burridge, Frieda Zamba… Cosa pensi dell’attuale considerazione di quel periodo? Voi siete tutte icone, ma personalmente ritengo che la vostra storia debba essere più presente nell’attuale panorama del surf competitivo.
Sì, non credo che ci siano abbastanza informazioni sulla storia del surf femminile – Girls Can’t Surf è stato un film impegnativo da realizzare proprio per via della fatica nel trovare le riprese, ecc. E in fondo è proprio per questo che ho voluto scrivere un memoir come Surf Like A Woman, così almeno la mia storia è documentata e salvata. Anche all’epoca molte donne spaccavano e surfavano grandi onde. L’unica differenza è che adesso le surfiste padroneggiano una tecnica più precisa e migliore, oltre a essere più raffinate grazie a un maggiore supporto, a migliori investimenti e a un’attrezzatura più avanzata. Ma dal punto di vista del temperamento molte erano incredibili anche all’epoca… solo che non venivamo filmate o fotografate perché i fotografi, che erano freelance, sapevano bene che le riviste non erano molto interessate a comprare e pubblicare materiale sul surf femminile. Loro inseguivano i maschi perché era lì che si facevano i soldi. È interessante che tu abbia menzionato Tahiti perché quel contest è stato epico. Sono stata così orgogliosa nel vedere la carica delle ragazze ma la WSL e altri media hanno affermato che il 10 (di Tati Weston-Webb, nda) sia stato il primo ottenuto da una donna in gara in questo spot… Questo non è vero. Keala Kennelly lo aveva già fatto, e lo stesso vale per Chelsea Hedges…il problema è che l’hanno “dimenticato”, ed è particolarmente difficile per Keala vedere cancellato il suo risultato. In ogni caso mi piace molto guardare Caity, Molly e le altre donne che spingono davvero oltre i limiti. Il futuro è davvero entusiasmante.
Qualche tempo fa ho visto il film Tonya incentrato sulla pattinatrice su ghiaccio Tonya Harding. In quel film c’è una sequenza in cui si parla dell’immagine nello sport. Certo, il talento era importante, così come la perseveranza, ma specialmente negli anni ’80 e ’90 a un atleta veniva richiesto di aderire a uno stereotipo, come la classica surfista con capelli biondi e occhi azzurri. Riguardo a questo tu hai iniziato un importante lotta contro i pregiudizi. Puoi raccontarci qualche aneddoto? (Ricordo il “bushpig” sulla tua tavola e il mohawk blu dopo la vittoria dell’OP Pro). E pensi che ora il problema sia risolto?
Penso che la situazione sia migliorata molto. Ma ritengo che, a causa della pressione degli sponsor che vogliono così tanto la visibilità sui social media, le ragazze sentano il bisogno di essere come delle top model e di mostrare “a bit more skin like their peers”, quando invece dovrebbero essere incoraggiate a concentrarsi solo sull’essere le migliori atlete e ad essere fedeli a ciò che sono.
Tu sei cresciuta a Bondi Beach. Com’è stato venire su in quella comunità negli anni ’80? Hai avuto qualche aiuto per inserirti nella lineup?
Beh, a Bondi facevano un sacco di cose conosciute come “grommet bashing”, ti potevano buttare nell’orinatoio degli uomini per farti capire. I ragazzi fischiavano quando passavo con lo skateboard e alcuni tipi strani si aggiravano per la strada o si nascondevano nei cespugli. A Bondi dovevi sempre stare molto all’erta per la tua sicurezza. Detto questo mi considero comunque fortunata ad essere cresciuta qui e ad aver avuto Bondi Beach come playground per tutta la mia infanzia. Mi ha reso quella che sono e mi ha insegnato ad essere dura, determinata, “streetwise” e resiliente… senza questo non sarei mai diventata Campione del Mondo.
So che il tuo motto è “There is always a positive in every negative”, una perfetta descrizione dell’attitudine “bring it on” che ha caratterizzato l’intera tua carriera. A questo vorrei aggiungere un’altra frase che ho sentito in un film di ESPN “Life is 10% of what happens to you and 90% of how you respond to it”. Questa citazione mi ricorda il contest ’99 in Sud Africa quando l’intera categoria femminile si rifiutò di iniziare la competizione a causa delle condizioni delle onde. Puoi descrivere l’atmosfera di quella situazione?
Questo scenario si verificò poco prima del contest SA. Nonostante le condizioni dell’oceano spesso accadeva che una delle donne cedeva sempre alla paura di perdere gli sponsor e si metteva a remare, ma in quell’occasione fu diverso. Eravamo ovviamente molto nervose perché pensavamo di poter essere multate per esserci ribellate e non aver fatto quello che ci era stato detto, ma allo stesso tempo eravamo profondamente arrabbiate perché volevano che uscissimo in condizioni impraticabili… la verità era che non c’erano nemmeno abbastanza onde per competere in una sola heat… e la frustrazione salì quando annunciarono che l’evento maschile sarebbe stato off a causa delle pessime condizioni delle onde.
Ultima domanda Pauline: ho visto che hai dedicato il libro al tuo coach Steve Foreman, qual è stata la più importante lezione che ti ha insegnato?
Steve mi ha insegnato a… rimanere sempre positiva e motivata… a vincere in modo energico e convincente, a spaccare il culo nelle mie heat… non certo a graffiare.
Grazie a Pauline Menczer, ex campionessa del mondo di surf.
Foto di copertina di Tom Servais.