Valerio Barbarossa, 22 anni, originario di Roma. Vive in Portogallo da 3 anni, dove ha appena conseguito una laurea in Marketing Internazionale. Anche lui è tra i tanti giovani che hanno lasciato l’Italia per trasferirsi all’estero, in cerca delle opportunità che in Italia ancora non esistono. Secondo l’Istat, infatti, nell’ultimo decennio sono espatriati circa 355mila giovani: quali sono le motivazioni? C’è chi va via per lavoro, chi per studio e chi scappa solo per fare esperienze che il nostro paese non ci consente di vivere. Sicuramente, il sogno di trasformare il surf in abitudine può essere incluso tra le motivazioni di Serie B che spingono ad andare via da casa, ma non tutti ne avrebbero il coraggio. Valerio Barbarossa ci racconta la sua esperienza da No Sponsor con tanto stile e idee da condividere.
Lanciare un brand come forma di espressione e manifesto di stile
Valerio andare via dall’Italia per rincorrere il sogno universitario e le onde: non è qualcosa da tutti. È un percorso che tu consiglieresti? In che modo hai conciliato gli impegni scolastici con la tua voglia di surfare?
Innanzitutto comincio dicendo che poter viaggiare è una gran fortuna e chi ha questa possibilità, a mio parere, deve sempre sfruttarla. Per tutti gli studi che uno può fare, sono convinto che la vera conoscenza è quella che si guadagna viaggiando, conoscendo nuove persone e altre culture. In generale, quindi, è un’esperienza che consiglio a prescindere dal lavoro, dal surf e dagli studi. In Italia sì, ci sono onde, ma sappiamo tutti che è frustrante. Quindi se si ha veramente voglia di farlo per migliorarsi ed affrontare il surf in maniera più seria, rimanere da noi può essere limitante.
“La scelta non è derivata solamente dal surf e delle onde: ho sempre avuto il desiderio di scoprire un po’ il mondo per capire effettivamente se il mio posto sia lontano da casa. Vivere a Roma è stupendo: si respira una cultura incredibile, i romani sono unici e si vive una realtà molto piccola e molto grande allo stesso tempo. Solamente mi sentivo un po’ chiuso in quel mondo. In più, l’università è sempre stato un obiettivo che volevo raggiungere: il liceo italiano da un’ottima preparazione, ma non basta. E soprattutto, manca quel fattore internazionale. Se si vuole lavorare senza il limite di sapere una lingua e di restare in un paese a mio parere ci si dive organizzare per vedere le possibilità. I miei genitori mi hanno supportato in questo, e li ringrazio per aver dimostrato quest’apertura mentale.
Conciliare surf e università è stato quindi abbastanza facile. Gli studi universitari sono impegnativi, però se si ha voglia di fare è molto stimolante. L’università è molto più interattiva, specialmente per quello che ho studiato io, ti insegnano a lavorare. Inoltre si studiano un sacco di cose anche di nostro interesse, avendo la possibilità di analizzare tutte le dinamiche che stanno dietro al marketing e al management di aziende surf-related. Di conseguenza, ci si crea poi gli spazi giusti per poter seguire le proprie passioni. Il tutto è agevolato dal valore meditativo che il surf ha per me: mi mette in uno stato d’animo che mi fa essere molto più produttivo. Se faccio una session di surf anche di mezz’ora la mattina presto prima di entrare in università, poi posso studiare tutto il giorno 10 ore di fila.”
Hai l’ambizione di poter lavorare nel mondo del surf in futuro?
“Al momento penso solo a fare esperienza per sviluppare più skills possibili. Il mondo del surf è un mondo un po’ particolare a mio parere, e non è neanche la mia unica passione. Se dovessi focalizzarmi solo su quello andrei a perdere su altre cose. Se vogliamo parlare di un obiettivo, il sogno è quello di sviluppare il mio progetto personale che racchiude tutte le mie passioni e mi permette di esprimere quello che voglio portare alle altre persone. Io mi sono ritrovato in una situazione privilegiata in cui ho avuto la fortuna di viaggiare, studiare, surfare e suonare: ho voglia di portare questo alle altre persone.
“Questo brand d’abbigliamento è la ricetta per unire tutto quello che amo e le persone che mi circondano. Non parliamo di alta moda ovviamente: quello che mi piace dell’abbigliamento è la capacità di un’immagine, di uno stile di raggruppare una determinata comunità, persone che condividono un determinato messaggio, uno stile di vita, delle passioni, delle influenze, e questa è la parte che mi interessa di più. Un’altra cosa che mi è sempre piaciuta da ragazzino è disegnare, quindi oltre alla parte di business vorrei dedicarmi al lato più creativo del lavoro. Però sai, quando inizi un brand poi ci si arrangia un po’ da soli. Questo è il progetto sul quale lavorerò probabilmente con più determinazione, però al contempo voglio fare qualche esperienza in realtà consolidate.”
Il progresso del surf italiano
Nel 2016 sei stato convocato ai mondiali junior alle Azzorre. Vedendo adesso i nuovi talenti della nazionale, quanto si è alzato secondo te il livello giovanile in Italia?
“Trovo che il merito sia da attribuire anche ai ragazzi che stanno dietro alla nuova organizzazione. Per cominciare, trovo che Stefano Bellotti e Nik Bresciani abbiano fatto un lavoro impressionante. È grazie a loro se c’è quello che c’è oggi: grazie a Stefano, alla sua voglia di fare e alla sua energia molte cose si sono messe a favore del surf in Italia. Nik è un allenatore molto bravo, e anche lui ha alzato l’asticella: secondo me il progresso generale che c’è stato è partito da loro. Per quanto riguarda i ragazzi invece, mi ricordo, quando frequentavo un po’ di più l’ambiente, che iniziavano già a surfare come si deve. Francesco sta ottenendo degli ottimi risultati. Oltre a Lazza, trovo che tra Rufo, Michele e Brando ci sia un grandissimo potenziale che non si vedeva da un po’: hanno un surf molto maturo per la loro età.
“Tutti gli italiani all’estero non li conosco in realtà, anche perché sono più per quelli cresciuti in Italia che conoscono lo struggle di chi ha poche onde. È interessante che da quando il surf è diventato sport olimpico, le cose hanno iniziato a prende più piede in Italia. Il CONI ha mostrato interesse nel settore e sicuramente gli esponenti della comunità surfistica italiana l’hanno indirizzato bene. Oggi la struttura federale che c’è dietro è incomparabile a quella di qualche anno fa, e i risultati si vedono. Essere seguiti così aiuta tanto a migliorare.”
Vivendo in Potogallo, noti che il surf lì sia più una cultura o uno sport?
“Qui è sicuramente una cultura più forte. Io ho amici che fanno parte di famiglie di surfisti, che è una cosa per la maggior parte di noi impensabile: non so chi tra i surfisti in Italia possa contare su una famiglia di surfisti. In Italia è quasi un problema far capire che effettivamente si può coltivare una passione simile. Abbiamo una situazione diversa, che ha anche il suo fascino però. Roberto D’amico ne parla spesso, col suo progetto On The Hunt, riflettendo a pieno quello che tutti abbiamo passato da ragazzini. Qui non c’è quel problema. Sei in Portogallo, nasci in una famiglia di surfisti: secondo al calcio c’è solo il surf qua. È una cultura molto ampia e uno sport molto praticato. Inoltre, ci sono delle identità nazionali ed un livello molto alto, il che aiuta.”
Stile o performance? La scelta di Valerio Barbarossa
Da quello che vedo dal tuo profilo, hai preso una strada dal punto di vista surfistico che concilia stile e performance. Quale delle due componenti prevale in te?
“È difficile da dire perché c’è una parte di me che ha sempre voglia di migliorare a livello tecnico: Trovo che sia importantissimo progredire, fa parte dell’arte del surf. Inoltre, qua ho la fortuna di allenarmi con ragazzi di tutto rispetto che surfano tantissimo e che mi stimolano a fare di più. Tuttavia, quando mi esprimo nel mio modo mi piace fare quello che piace a me, provando determinate cose. Questo è dovuto al fatto che, specialmente da quando sto qui in Portogallo, sono in una posizione in cui non sono più sono andato abituato passare quei 5 secondi italiani sull’onda: qui ho tempo per fermarmi e contemplare quello che sta succedendo. Detto ciò, non parlerei necessariamente di stile ma più di feeling. Per com’è stata la mia evoluzione qui, sono più propenso a cercare una determinata sensazione mentre surfo un’onda piuttosto che magari attaccare ogni sezione.
Aggiungo anche un punto importantissimo, che è il lavoro con uno shaper. Da quando sono qui in Portogallo ho iniziato a collaborare con Nothing Surfcraft, shaper locale molto bravo con una filosofia molto particolare. Quando andiamo a chiedere una tavola diamo sempre linee guida troppo specifiche. È un processo strano: tu stai andando da qualcuno che se ne intende e può aiutarti a capire di cosa hai bisogno, ma vai lì a dirgli cosa ti serve. Mi sono trovato con questo shaper ed abbiamo sviluppato insieme dei modelli un pochino differenti.
Quest’idea nasce dal fatto che secondo lui, e anche secondo me, bisogna piuttosto specificare che tipo di surf si vuole fare, che sensazione si vuole provare. Così ha molto più senso: io non so come produrre una tavola per arrivare a un tipo di surf, lascio tutto nelle mani dello shaper. Bisogna affidarsi alle mani sapienti di un artigiano per arrivare ad esprimere la propria identità variando, sperimentando. Provare tavole diverse è come viaggiare: se vedi solo un paese nella tua vita è probabile che non troverai altri pezzi di te in giro per il mondo”.
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