Gli aeroporti sono luoghi tristi, non trovate? Vedi tante persone sole. Chi parte abbraccia il cambiamento ma lascia le certezze, chi torna forse lo fa controvoglia. A me piacciono i ritorni in realtà: cosa sarebbe un viaggio senza una base a cui tornare? Scrivo le prime righe di questo racconto dall’aeroporto di Cape Town. È sera, il mio aereo parte alle 23. Anche oggi ne abbiamo viste d’ogni girando per questa splendida città ai confini del mondo abitato.
Parto dalla fine perché l’andamento della giornata dice molto sul tenore di quest’avventura vissuta con Alessandro e Luca, fratelli di onde e ricerca. Cape Town è la surf city per eccellenza: data la geografia del luogo, si possono trovare soluzioni per surfare di qualità con qualsiasi direzione di vento e mareggiata. Le Table Mountains difendono le spiagge da alcuni venti, la penisola del Capo di Buona Speranza si distende verso il Polo sud creando spazio per False Bay. Camps Bay, culla del quartiere chic per eccellenza, è esposta ad ovest come Llandundo, spot caro a Jordy Smith, così come Kommtjie, sobborgo natale di Mikey February. Meno è potente la swell, più ti esponi al mare aperto. E se invece il mare entra forte da ovest sud-ovest, ti riparti a Muizenberg, che punta a sud. Non ho nemmeno cominciato a sciorinare la lista degli spot di Cape Town, almeno una quarantina nello spazio di un’ora e mezza di macchina. Questo posto sembra frutto dell’immaginazione di un surfista capriccioso.
Avvistamenti misteriosi e babbuini minacciosi: disavventure post-surf a Cape Town.
Oggi per esempio la mareggiata stava droppando, avevamo bisogno di inoltrarci verso il mare aperto. La sera prima come di rito ci si chiude in conclave per deliberare sul piano della mattina seguente, tenendo sempre in considerazione che la notte potrebbe avere degli sviluppi a seconda del numero di bicchieri già tracannati. Questo è importante, incide sull’orario della sveglia. Ma ci aspetta il mio ultimo giorno di surf in Sudafrica e non possiamo che chiudere in bellezza, faremo di tutto per portare a casa il risultato. Again. Il prode capitan Alisander guida fino al Capo di Buona Speranza, un’ora e mezza di paesaggi mozzafiato. Ci fermiamo a guardare un paio di baie: il vento come previsto soffia da terra, il set è ad altezza petto. Nonostante dopo due settimane qui abbiamo imparato a convivere col pensiero fisso degli squali, prepararsi ad entrare in acqua sulla punta estrema a sud dell’Africa aggiunge all’idea un pizzico di imprevedibilità. Optiamo per Platboom Beach. Acqua cristallina, trasparente. Vento forte off-shore. È sharky.
Luca riesce a prendere le misure prima di me ed Alessandro, fa su e giù a colpi di tre manovre per onda. L’onda sinistra è moscia in partenza e poi si raddrizza all’improvviso, diventando spesso troppo veloce. Alessandro parte remando dentro un picchetto triangolare che sembra promettente. Procede per cento, centocinquanta metri. Io e Luca attendiamo guardando l’orizzonte. Io per abitudine tengo le gambe sopra la tavola, non a penzoloni sott’acqua: non serve a nulla ma sto più tranquillo. Alessandro inizia a fischiare. Ecco fatto, appunto. È il segnale e per fortuna sta arrivando un’onda che io e Luca remiamo senza esitare un secondo. Torniamo verso riva, Ale ci aspetta lì:
Luca: “Che hai visto? Cos’era?”.
Alessandro: “Regà non lo so, c’era una bestia sotto di me quando sono uscito dall’onda. Quella cosa è sfrecciata verso il largo, un animale nero grosso almeno come la mia tavola”.
Luca: “Ma dai Ale, se non eri sicuro potevi non farci cagare sotto così, magari era una foca. Stavamo sballando”.
Alessandro: “Sì forse era una foca, può essere, ma ho preferito chiamarvi perché veniva verso di voi. Che volete fare, rientriamo?”
Luca: “No ormai dopo questa scena non è il caso, ce la siamo presa a male”.
Nel mentre tre ragazzi scendono la duna dal parcheggio, tavole sottobraccio: “Coupla fun ones, aye?”. Ovviamente non diciamo una parola riguardo al presunto avvistamento: loro sono di qui, sai che gliene frega? I sudafricani sono abituati e accettato serenamente l’idea di condividere la lineup con gli squali. Aspettiamo vederli surfare, prendono poco e niente. Torniamo alla macchina sconsolati. Una ragazza dall’alto ci viene incontro preoccupata: “Potreste aiutarmi? Un babbuino enorme è entrato nella mia macchina, sta facendo un casino”. Nel parco nazionale del Capo di Buona Speranza vive una colonia di babbuini selvatici, bestie meno quiete e coccolose di quanto queste foto potrebbero far pensare. Decidiamo di cambiarci per evitare di lasciare anche noi le portiere aperte prima di assistere la ragazza: il piano è seminare della frutta secca intorno alla macchina per far allontanare i babbuini. Sì perché sono due, non uno, gli ospiti indesiderati. Mentre ci cambiamo vediamo arrivare dalla spiaggia altri babbuini: tre, cinque, otto con mamma e cuccioli al seguito. Oh-Oh.
La scena diventa esilarante. I babbuini accerchiano la macchina della ragazza e ne prendono definitivamente possesso. Suoniamo il clacson, spargiamo noci e mandorle per strada, proviamo a distrarli con versi e schiamazzi ma niente, non ne vogliono sapere. Il babbuino capo è comodamente seduto sul divanetto posteriore della Volkswagen Polo bianca di questa povera ragazza, che si dispera mentre la scimmia rovista nella sua borsetta. Non possiamo far altro che aspettare. Stufo di giocare, il babbuino abbandona la macchina e finalmente si concentra sull’esca, la frutta secca. La ragazza allora con uno scatto felino si riappropria della Polo, sbattendo la portiera in faccia al branco di scimmie. Missione compiuta.
Perché stupirsi? In Sudafrica vivono 299 specie di mammiferi e 858 specie di uccelli, oltre a 22.000 piante e non so quanti pesci. Il Sudafrica è al sesto posto tra i paesi megadiversi, un gruppo di 17 nazioni che ospitano il 70% della biodiversità globale occupando solo il 10% della superficie terrestre. La natura è meravigliosa e solenne, lo dico senza aver nemmeno avuto la possibilità di vivere un safari.
Ma io, Alessandro e Luca abbiamo scelto di venire in Sudafrica principalmente per un motivo: volevamo surfare J-Bay. Torniamo all’inizio.
Perché il Sudafrica? Una scelta last-minute.
Non sopporto l’idea di partire durante le due canoniche settimane centrali di agosto, soprattutto adesso che non lavoro più in ufficio. C’è casino in giro, tutto costa di più, ovunque vai nel mondo senti parlare la tua lingua e allora tanto vale starsene a casa. Infatti questa era l’idea: lasciar passare agosto, non uniformarsi al gregge. E invece dimenticavo che i miei amici fanno parte della maggioranza. Io, Luca e Alessandro eravamo rimasti a piedi, consapevolmente in realtà, per tenere ogni opzione aperta fino all’ultimo. Partire sotto previsioni è un lusso sfrenato ma comporta anche delle grosse responsabilità: bisogna studiare scrupolosamente per evitare il pacco, che comunque è sempre dietro l’angolo.
Il piano A era il Perù, qualcosa però stava andando storto. Monitoravamo la situazione da settimane e le mareggiate da sud tipiche della stagione tardavano ad arrivare. Colpa del Niño, fenomeno metereologico che si verifica quando la superficie dell’Oceano Pacifico centrale registra un incremento di temperatura di almeno 0,5 °C. Quando accade gli alisei, venti che soffiano da est verso ovest lungo l’equatore, si indeboliscono, rallentando di conseguenza lo spostamento dell’acqua calda dalle coste dal Sudamerica all’Asia. El Niño altera gli equilibri atmosferici e comporta diversi problemi al pianeta. A livello di onde invece alcune aree beneficiano del Niño e altre, vedi il Perù, ne soffrono irrimediabilmente.
Per toglierci ogni dubbio mi sono rivolto ad un mega esperto, il surf explorer per eccellenza, Kepa Acero. Avevo conosciuto Kepa pochi giorni prima agli XMasters di Senigallia, dove grazie a Reef avevo avuto l’occasione di intervistarlo. Dovete sapere che Kepa fa solo videochiamate, non usa il telefono per tenerlo attaccato all’orecchio. Quindi lo videochiamo e lo trovo seduto in cucina con una tazza di caffè in mano. Ha il telefono appoggiato sul computer, dove sta guardando insieme a me le mappe meteo marine. “Con queste previsioni per le prossime due settimane non potete aspettarvi di surfare più di un metro e mezzo, sarà altezza testa nei giorni migliori. Il resto non sembra molto promettente”. A quel punto era già emersa l’ipotesi Sudafrica, quindi la sottopongo al maestro, che si esprime positivamente: “Sta arrivando una bella bomba, J-Bay così dovrebbe lavorare”. Ottenuta anche la benedizione di Kepa, siamo pronti a partire.
Sulla strada per Jeffreys Bay, tra onde destre infinite e contrasti sociali mai sanati.
La strada da Cape Town a J-Bay ti lascia senza respiro, è un susseguirsi di panorami da cartolina. Sono otto ore di viaggio che diventano dieci effettive tra i limiti naturali del nostro glorioso mezzo, una specie di monovolume tanto brutta quanto funzionale, e la memorabile pausa pranzo al Die Skeerhok Padstal. Le costolette più buone della mia vita, fanculo l’Autogrill. Indolenziti dalla sfacchinata ci fermiamo anche per un surf veloce lungo la via, il primo del trip sudafricano. Io e Luca entriamo a Mossel Bay verso il tramonto, Alessandro desiste. Il tratto di costa tra Mossel e Plettenber Bay è tra i più “squalosi” del paese, qui organizzano le esperienze di shark cage diving. L’acqua è di un blu impenetrabile e c’è da aspettare tanto tra un set e l’altro. Questa sarà una costante dei point sudafricani, attesa e poca compagnia. Portiamo la prima session a casa col sorriso.
Finalmente a J-Bay veniamo accolti dal proprietario di casa, un signore bianco sulla cinquantina, originario di Johannesburg. Si dice onorato di avere ospiti degli italiani e confessa che per fare bella figura ha comprato un buon vino locale. Effettivamente la qualità del vino in Sudafrica è eccezionale, soprattutto in relazione al prezzo. Dice che Jeffreys Bay è sicura ma di stare attenti alla periferia del paesino, dove si concentrano le bidonville. Incuriositi facciamo domande sulla situazione politico-sociale del paese: l’Apartheid è davvero un lontano ricordo?
“Purtroppo nell’entroterra ogni mese vengono uccisi una dozzina di contadini bianchi in media, la situazione qui si è ribaltata. Io non ho niente contro le persone di colore, mia figlia è fidanzata con un ragazzo che vive in una bidonville, ma semplicemente spesso non vogliono integrarsi. Questo ragazzo va in giro con una Golf GT e ha un lavoro normale, una vita normale. Ma se gli chiedo: perché non ti compri una casa vera? Mi risponde che lui non lascerà mai la baraccopoli, perché lì è dove è cresciuto e dove vive la sua famiglia. È una questione culturale. Siamo ancora una nazione divisa da contrasti e ferite forse insanabili”.
Domani finalmente realizzeremo il sogno che ci ha spinto fino in capo al mondo: surfare la destra di Jeffreys Bay, una delle onde più acclamate del pianeta. L’orario a cui puntare la sveglia è oggetto di discussione perché le nostre abitudini mattiniere stavolta si scontrato con la paura di entrare in acqua alle prime luci, momento in cui anche secondo la International Shark Attack File gli squali sono più attivi: evitate alba e tramonto. E così faremo. Sono le 8.30 di mattina, il sole è già sorto da un po’ e stiamo camminando verso lo spot. La porzione di terra occupata da ville che si sviluppa da nord a sud, seguendo la linea dell’onda, è a mani basse la parte più bella di J-Bay. Attraversiamo i giardini di queste splendide case con vista sullo spot per raggiungere la piattaforma in legno posizionata difronte a Supertubes, una delle cinque sezioni dell’onda di J-Bay. Secondo la leggenda, nei suoi giorni migliori l’onda di J-Bay raggiunge oltre 1000 metri di lunghezza. In quel preciso istante davanti ai nostri occhi sgranati si presenta la seguente situazione:
- Due, tre persone massimo a Boneyards. L’onda che parte da fuori muore in un closeout prima di raggiungere Super. Si surfa ma non c’è abbastanza mare da far connettere i due picchi.
- Dieci, massimo dodici persone a Super. L’onda corre veloce attaccata alla linea di scogli e come era chiaro dalle ore di studio davanti ai video, bisognerà imparare a prendere il tempo a questo treno in corsa chiamato J-Bay.
- Una dozzina di surfisti con tavole più lunghe sono seduti a The Point, verso la spiaggia. L’onda laggiù arriva rifratta e srotola dolcemente, l’ideale per i longboarder.
Dai, entriamo.
J-Bay a primo impatto: squali, poca gente e la lentezza del set che non arriva mai.
L’entrata in acqua non è delle più semplici, ma riconoscere i pochi canali d’uscita è decisamente più complesso. Di fatto tra la spiaggia sabbiosa e l’oceano si estende per tutta la lunghezza dello spot una muraglia di rocce dalle punte aguzze, tra crepacci e pozze che emergono e svaniscono a seconda delle maree. La prima volta per evitare di sfracellarmi i piedi, cosa poi successa comunque, ho fatto il giro lungo uscendo da The Point. Cinquecento metri e più di remata radente alle rocce e col culo stretto, una via crucis affrontata in solitudine, canticchiando per distrarmi dal pensiero degli amici in grigio. In tutto ciò sono dentro, sono seduto in lineup a J-Bay e aspetto che arrivi il mio turno. Siamo pochi, una quindicina, il livello medio non è altissimo. Non mi capacito del perché una delle onde migliori al mondo non sia affollata di turisti accaniti. Nei successivi dieci minuti di attesa, con l’oceano fermo e l’acqua torbida, inizio a trovare risposte: squali, squali, squali. Forse la gente non vuole fottere con questo pensiero: quale turista sano di mente si accollerebbe uno stress simile in vacanza? Noi, eccoci. Noi e pochi altri evidentemente.
Si surfa solo la serie, set di 1.5 metri. A me pare epico e invece a posteriori ho saputo da Adin Masencamp, numero 2 del surf sudafricano, che le giornate come questa non vengono nemmeno prese in considerazione dagli habitué di J-Bay: “Quando c’è una swell veramente buona te ne accorgi, in acqua ci sono almeno 50 surfisti forti che vengono da Cape Town, Mossel Bay, Victoria Bay”. Il clima in acqua è super rilassato: tolti un paio di esagitati scherniti perfino dai local rippers, tutti fanno la fila e chiacchierano amichevolmente. A Coxos o Mundaka non potrai mai trovarti in una situazione simile. Il nostro nuovo amico Adin ha una spiegazione anche per questo: “In Sudafrica esistono molte più onde che surfisti, le persone non soffrono d’astinenza da onde come in Europa o negli Stati Uniti”. Touché.
Triste verità: abbiamo trascorso una settimana a J-Bay senza mai beccare, purtroppo, il vero J-Bay. Quando a pochi giorni dalla partenza abbiamo comprato il biglietto le previsioni indicavano una mareggiata (la stessa che ha portato ad uno degli Skeleton Bay più grossi di sempre) che avrebbe dovuto attestarsi sui 3.5 / 4 metri. Per surfare J-Bay serve una swell da sud sud-ovest molto grande perché lo spot è coperto dalla punta di Cape St. Francis. Purtroppo quel mega impulso su cui avevamo scommesso ha ruotato molto da ovest, riducendo la sua forza d’impatto su J-Bay. Le previsioni sotto costa alla fine nei nostri giorni davano 2.4 / 2.7 metri di media con 14, massimo 18 secondi di periodo. Onestamente abbiamo fatto dell’ottimo surf, ma non è stato ciò che sognavamo. Jeffreys Bay si è dimostrata comunque un’onda fantastica, che ti trasporta con un’energia costante che non avevo mai percepito sotto ai piedi in tanti anni di surf. Quando non lavorava ci spostavamo a Seal Point, lo spot più esposto di Cape St. Francis, un’altra destra di qualità sorprendente. Il vento è quasi sempre off e l’atmosfera in spiaggia come in lineup è eccezionale, un angolo di paradiso. Bambini, nonni, donne e uomini di tutte le età uniti dalla passione genuina per il surf.
Il surf in Sudafrica è un’esperienza da provare. E riprovare. Infatti tornerò.
A J-Bay differentemente da Cape St. Francis, che mi ha ricordato una piccola Porto Cervo, la commistione tra classi sociali è invece evidente. La cittadina, dove secondo Wikipedia vivono 27.000 persone, mette tristezza, ti dà la sensazione di un luogo caduto in disgrazia. Gli store di marchi illustri come Rip Curl o Quiksilver sono capannoni giganteschi con gli scaffali pieni di roba di tre collezioni fa, perfino gli enormi manifesti affissi sulle pareti appartengono ad un’altra epoca. Due commesse dimesse si spartiscono centinaia di metri quadri di obsolescenza. A Jeffreys si fa fatica a trovare un ristorante dignitoso, gli unici due bar dove poter bere una birretta sono bettole abbastanza squallide, dove il tempo si è fermato agli anni ’90. Eppure questa cittadina dovrebbe vivere di turismo, di un turismo in crescita, il turismo dei surfisti che documentano ogni secondo della vacanza su Instagram. Un mio caro amico per metà sudafricano mi raccontava che J-Bay vive due settimane l’anno e si accende soltanto quando la World Surf League arriva in città. Nel 2024 il Championship Tour non farà più tappa qui. Per mantenere un legame con J-Bay, la lega ha comunque organizzato uno “speciality event” ad invito, un contest promozionale che vedrà vecchie glorie e carismatici freesurfer sfidarsi con tavole stilose.
Il nostro viaggio si conclude a Cape Town, esattamente da dove ho cominciato a raccontarvi questa storia. A Cape Town onestamente ci vivrei per un periodo. Il costo della vita è ingiustificatamente basso rispetto agli standard dei servizi che nella capitale legislativa del Sudafrica sono comparabili a quelli europei, e poi ragazzi dovreste vederla: la città è placidamente adagiata in una culla tra montagne di 1000 metri e due oceani che allungano le mani sull’infinito. Sono le 22.32, è iniziato l’imbarco. Lascio il Sudafrica e Cape Town con un senso di incompletezza. Troppe domande a cui non sono riuscito a dare risposta, troppe onde ancora da scoprire. Tornerò perché a questa avventura di surf in Sudafrica manca proprio un bel finale.