Fuggire dalla frenetica vita occidentale sembra impossibile ormai. Che si scappi in cerca di onde in Portogallo, Spagna o per le Landes la probabilità di ritrovarsi in una lineup in solitaria è prossima allo zero. Pare che la situazione stia diventando analoga pure in quelle terre che sono rimaste a lungo protette in una bolla. Basta guardare Bali: l’isola degli dei espropriata dall’egoismo capitalista, meta di milioni di surfisti e amanti del lifestyle surf-yoga-avocado che la invadono in ogni periodo dell’anno.
Anche il Marocco è a rischio. Alcune roccaforti a dir il vero sono già crollate. Taghazout è diventata la Hossegor invernale degli europei, l’iconica Imsouane ha perso il sapore genuino di un tempo. Tuttavia, scendendo verso sud, la situazione pare livellarsi nuovamente. Sarà che l’aria del Sahara Occidentale forse ci spaventa, ma è lì che si può ancora fuggire dalla frenesia europea, raccogliendo i frutti della solidarietà e dell’umiltà di chi abita quelle terre desolate. Il deserto la fa da padrone: non esiste proprietà tantomeno proprietario. Ed è assurdo come dietro il non possedere nulla in realtà ci sia tutto quello di cui si necessita.
Ci faremo guidare in questo viaggio tra i colori sub-sahariani da Gabriele Palmato, fotografo e surfista ligure, che da qualche mese si è stabilito col suo camper nel paese nordafricano. Ad accompagnarlo Sabrina, la sua fidanzata, maestra di yoga e spirito sincero che con la sua empatia riesce ad arrivare anche al cuore degli abitanti locali più prevenuti. “Il Marocco è un posto mistico – afferma Sabrina –, ne respiri le energie attraverso i suoi paesaggi, i racconti della gente del luogo, gli abbracci dei bambini dei piccoli centri cittadini. Se ne può respirare l’attaccamento alla loro terra, che vogliono mostrare e far conoscere ma con la promessa di proteggerla e farla rimanere autentica. Senza dubbio è il posto dove abbiamo creato i rapporti più stretti con altri viaggiatori come noi“.
Interviene Gabri: “I locali vivono alla giornata, un po’ come i camperisti. Si ritrovano a godersi i tramonti sul mare, passando ore ed ore su una sedia davanti all’oceano contemplando l’immensità che gli si pone davanti. Molti non sono nemmeno surfisti: ammirano le onde con gli occhi di chi venera ma allo stesso tempo teme e rispetta. Amano la vita lenta”. Prosegue: “I colpi d’occhio che ti lascia il paesaggio ti fanno provare emozioni forti, che rimangono impresse nella mente assieme ai colori caldi che lo caratterizzano. È incredibile come nell’anonimato del deserto si riesca a scovare, in realtà, un’immensità di luci, forme e tonalità”.
“Non saprei dirti in che cosa credono, posso solo intuire che il mare è una religione per loro e gli da conforto più di qualsiasi altra cosa. Dopotutto non hanno nulla da perdere, ed è proprio in quel nulla totale che sono radicate la loro purezza e genuinità. Basti pensare che fino a una decina di anni fa i pochi surfisti che ci sono possedevano una tavola in sei, e facevano a gara ogni giorno per aggiudicarsela e buttarsi tra le bombe e gli scogli. Ora, col fatto che i turisti si stanno spingendo piano piano sempre più a sud, ereditano attrezzatura da loro e riescono a coltivare il surf meglio di quanto pensiamo”.
“Siamo arrivati nella parte meridionale del Marocco con la convinzione che saremmo rimasti quattro giorni appena. Surf a parte, piano piano siamo entrati in contatto con una combriccola di ragazzi del posto, tanto che le loro vibes e l’atmosfera mistica del luogo in cui ci trovavamo ci hanno trattenuto giorno dopo giorno. In questo tempo ho avuto modo di osservare l’onda che surfavamo nel suo mutare dal mattino alla sera, dall’alta alla bassa marea, con tanto o poco vento. Sicuramente, vedere chi è di casa surfarla e assorbire consigli da loro mi ha permesso di superare il timore con cui dal Mediterraneo ero arrivato ad affrontare pareti d’acqua mai viste prima d’ora”.
“Ho scoperto lo spot grazie a Bohcin, il ragazzo della surfhouse di lì. Assieme al fratello Abdel hanno scommesso tutti i loro averi nel loro progetto. Nulla di commerciale, è una surfhouse autentica che mira a creare legami indissolubili con i visitatori di altri paesi facendogli vivere un’esperienza più local possibile. La prima volta che sono entrato nello spot ero presissimo dal surfare e ho iniziato a prenderne una dopo l’altra. Vedevo la maggior parte delle persone non riuscire a partire, tanto che poi ho scoperto che erano clienti di Bohcin quando avvicinandomi mi ha detto ‘Ti sei divertito? Lasciane qualcuna anche agli altri”.
“Il giorno dopo era epico e ho deciso di rimanere fuori dall’acqua a scattare con la macchina, per poi regalare le foto che avrei fatto in segno di rispetto. Al contempo ho fotografato anche altri ragazzi di lì: un gruppo di appassionati del classic style, coi single fin. Da quando Torren è passato per le loro terre è diventato il loro idolo, tanto che lo stile prediletto è senza dubbio quello retrò. Li vedevo surfare con quelle onde, e mentre stavo postproducendo nel parcheggio li ho chiamati per passargli le foto. Da lì siamo entrati in confidenza con loro, tanto che in poco tempo abbiamo costruito una famiglia allargata. È bastato mostrare rispetto per farsi voler bene, a tal punto che in poche settimane facevamo parte della loro routine. Ci invitavano a pranzo, ci aiutavamo col camper e noi ricambiavamo con foto, vestiti e soldi”.
“Medhi è quello che tiene tutto insieme con il gruppetto di ragazzi, assieme a Momo, ospitandoli a casa sua. Da qualche anno ha creato un’organizzazione di nome Oceans Children, cui obiettivo è avvicinare i giovani al surf con la speranza di allontanarli da dinamiche di vita non sane. Dopotutto sono luoghi brulli, desertici, in cui regna il nulla. Le prospettive di vita sono in bilico tra una cultura radicata alle proprie tradizioni e il rischio di perdersi nella fare nulla. Tutti loro, infatti, stravedono per l’oceano: non a caso, regalare una tavola da surf a un ragazzino del posto significa cambiargli la vita”.
“Sono innamorati delle onde e non concepiscono il surf come uno sport, come ormai è diventato in Europa. Amano il contatto che gli da con la natura, la possibilità di avere un legame ancora più intimo e profondo con il posto in cui vivono. Passano le giornate a sentirsi e a guardare il mare, e sono contentissimi anche se non surfano. Il surf per loro è il mezzo che li porta ad avere questo legame, e non ho mai visto nessuno viversela con questa intensità. Stando a digiuno di tutte quelle cose materiali a cui noi siamo affezionati riescono ad apprezzare quello che in molti darebbero per scontato in un contesto del genere. Lo stesso Medhi una volta mi ha detto: questo posto ha un’energia assurda, è il luogo dove ho trovato la massima pace perché ho trovato la mia onda, la mia casa e non ho più bisogno di cercare”.
“Tuttavia, Medhi è solo la punta dell’iceberg dei locals di qui. Ad accompagnarlo c’è la voglia di surfare e di condividere onde di Momo, che non conosce localismo e ha sempre un sorriso disarmante in faccia. C’è la dolcezza del piccolo Mohamed, un ragazzino di 10 anni che inconsapevolmente surfa double over-head da quando ha fatto il primo take-off. Spesso la sera lo trovavamo in paese a giocare e lo riaccompagnavamo col camper verso casa. In lui c’era la fiducia totale verso di noi. C’è la generosità infinita di Karim e di sua madre, che ci hanno preparato un piatto tipico per ringraziarci di qualche scatto in body. C’è la storia incredibile di Azdhi, un pescatore che vive gran parte delle sue giornate in una grotta sulla spiaggia assieme al suo cane. Infine, c’è l’invadenza esuberante di Himoo, che passava ad aiutarmi a pulire il camper e a bere tazze di cereali, latte e amlou. Sfoggiava sempre il suo spirito da imprenditore alla ricerca di clienti per il suo negozietto di surf”.