di Pietro Guglielmetti
Nell’immaginario comune dici surftrip e vedi onde, caldo, amici, avventura, divertimento. A volte, come spesso accade il surf riporta tutto a galla: il meglio e il peggio in ognuno di noi. Il surf è una cartina tornasole della nostra vita, amplifica emozioni e stati d’animo che la quotidianità tende a trascurare.
Non ho nulla da insegnarvi sul Marocco vi parlerò solo di sabbia e colori che cadono dagli occhi. Era il 24 dicembre 2004 quando il mio surftrip ha preso il via in una Casablanca fredda, polverosa e sbiadita. IO ODIO IL NATALE, quindi sono qui da solo, in una stanza d’albergo stantia e umida. La porta non si chiude, ho messo la sedia sulla maniglia e mi sono infilato nel letto vestito. 4 stelle dei miei coglioni!
25 dicembre – Santo Natale – mi sveglio rattrappito con lo stomaco già rivoltato dagli odori della cucina. Mi aspetta un inquietante viaggio in autobus fino a Essaouira, la città blu del vento. Inutile descrivere la campagna ad oltranza, i visi grigi scavati che con le loro greggi attraversano moderne autostrade e cavalcavia, nuove ferite in un regno in svendita, sbancamenti e pneumatici, colline divelte. Le strade rosse immerse nel nulla diventano un lontano ricordo. Arrivato ad Essaouira mi feriscono gli alberghi occidentali spuntati all’ingresso della città e i cino-market che hanno sostituito l’artigianato locale. Ancora una camera senza finestra inzuppata di umido. Giro nelle vie per trovare il nulla, finisco al porto ma sono uno straniero fra i turisti. Mi aspettavo un clima mite, invece il muschio prolifera sui muri e le chiazze di piscio non si asciugano al vento bagnato dell’oceano.
Il giorno dopo prendo un autobus fino a Taghazout. La Mecca. Il paesello è vitale, un sole convincente scalda i rachitici olandesi che si scagliano in acqua senza paura. Io mi cerco una stanza. Il sangue comincia a scorrere, capisco che quest’anno ho esagerato con i viaggi, sono vittima di una sorta di cinetosi, ma l’esigenza e l’urgenza di trovare una sistemazione azzerano i problemi mentali e il malocchio. Chiedo in un surfshop, mi indirizzano a un albergo. Comitive di turisti gridano euforici, ma è tutto pieno e non è quello che cercavo. Girovagando nei vicoli conosco un ragazzo che mi porta a casa sua, direttamente sulla spiaggia di Taghazout. L’edificio è ancora in costruzione, al primo piano vive la famiglia, al secondo e al terzo ci sono le camere per gli ospiti. Spartano ma perfetto, peccato che l’unica stanza libera non abbia finestre, e sia l’unica affacciata sul cesso. L’odore non è dei migliori, spezie più marcio di piedi. Per me va bene. Oggi va bene così.
Butto le mie cose in “camera” e faccio conoscenza con un inglese sui quaranta che mi spiega di essere ospite da un mese nella camera sopra la mia. Parla troppo veloce e afferro solo degli spuntini di frase, sembra fuso. Oggi va bene anche lui. Ritorno al surfshop per noleggiare una tavola. Ottimo, non ho tante pretese, vorrei una cosa abbastanza solida sui 7 piedi, ma il tipo insiste per rifilarmi una shortina da groms. Rifiuto e rilancio con una tavola bella ingiallita e pesante. Me la lascia ricordandomi che, se voglio, posso cambiarla durante questi giorni di surftrip. Ok amigo dammi un 5. Ciao, prendo muta armi e razzi e mi dirigo verso Anchor Point (dove si è appena svolto il Rip Curl Pro Search Taghazout Bay della WSL) a piedi, dal paesello saranno 10 minuti. Le onde ci sono, la costa è un susseguirsi di lastroni di roccia buttati obliqui nel mare. Le onde ci sono cazzo. Arrivo alla punta, un castello diroccato incornicia un point da sogno. Osservo un marocchino con una muta slabbrata che si butta dagli scogli con un minimalibù, due bracciate è sul picco, si bagna la testa, sorride. Arriva la sberla da cinema si accartoccia nel sole e lui è già lì che scende nel cavo e risale scende e risale scende e risale, per un’eternità. Esce dall’onda e rema fino a ritornare sul picco, con lo stesso sorriso e i capelli asciutti.
Due nordici vogliono imitano buttandosi dalla punta, sbagliano il tempo e vengono sbriciolati malamente sugli scogli, non si sono fatti nulla. Uno rimane perplesso a guardare il mare, l’altro preferisce la spiaggia dove comincia un’interminabile serie di duckdive. Dopo un quarto d’ora viene spiaggiato come una medusa. Lascio Anchor Point e mi dirigo al limite della spiaggia di ciottoli, dove c’è uno spot più abbordabile. Una decina di surfisti in acqua: enjoy man. Mi butto tranquillo in lineup, due ondine ben formate, non sono in forma ma il sole rende tutto più semplice. Passo un paio d’ore in acqua e torno a casa contento. Il mare cresce nella sera, il rumore di fondo aumenta. Riso bollito e un the alla menta, scambio due parole con il proprietario del ristorante. Me ne vado in camera e solo al momento di coricarmi mi accorgo che non ci sono coperte, solo il materasso. Io non ho il sacco a pelo, quindi mi sdraio vestito con la giacca. Buonanotte.
La mattina dopo è nuvolo, minaccia pioggia, dal balcone vedo che il mare è bello carico. Prendo il tavolozzo e mi dirigo a sud. Nuovo spot Banana Beach o Banana Point a seconda di come vi piace la banana. Qualcuno in acqua, tutto molto confuso, vento on, molto difficile raggiungere la line up, ancora di più capire queste onde che tendono a chiudere. Torno a riva infreddolito, piove cazzo, tolgo la muta e torno nel mio cesso di stanza. Passo un pomeriggio infernale, piove fino a sera. Mangio il solito riso bollito, triste come un cane al parco delle Groane. Fuori gocciola, scambio due chiacchiere con un gruppo di inglesi che si stanno organizzando per Capodanno. Fotte una sega del Capodanno. Tutti ridono, lasciamoli ridere. Saluti, buonanotte. Piove. Avvolto nella giacca – non sto tanto ok – esco e faccio uno spinello. Dormo peggio della sera prima.
Mi sveglio (o forse no) saranno le dieci. Chi sono? Il vicino di stanza mi vede e ride. Cazzo ride? Non sto un cazzo bene. Ho la febbre. Torno in stanza. Tosse. Mal di testa. Dormo. Verso le quattro mi alzo e dal balcone vedo un ragazzino che aspira in continuazione la colla da un sacchetto. Avrà dodici anni, sembra un vecchio e la situazione mi sta definitivamente sfuggendo di mano. Faccio uno spinello. Mi rimetto a letto senza forze. Mangio un riso o forse no, ho freddo.
Sono uno straccio. Debilitato mi costringo a mangiare qualcosa e, tremante, arrivo fino ad Anchor Point, le onde fanno paura, vorrei andare a Boilers ma non ho lo stomaco per reggere un viaggio in pullman. Mi siedo sulle rocce cerco di prendere un po’ di caldo in stile lucertola, ma nulla. Torno verso il paese e chiedo dove c’è un medico con il quale faccio il simpatico. Mi dice che non ho niente e mi rifila delle pastiglione bianche con scritte in arabo (3 al giorno).
Cammino. Cerco contatto con la terra.
Un surfista ha finito la session e cerca di uscire dall’acqua ma non c’è spazio fra rocce e onde e onde e rocce, gli faccio segno che a 500 metri c’è una spiaggetta minuscola con una risacca da paura…rema e ci arriva, prova a uscire ma la risacca lo schianta, aspetta e poi esce. Mi fa ok con la mano. Bravo amico che non ti sei ammazzato, hai aspettato e sei uscito vivo. Ho tanto da imparare.
Il giorno dopo mi faccio un po’ di pesce alla griglia, per vedere se riprendo le forze, ma ho continui tremori. Mi sto rimettendo lentamente ma sono sempre senza forze, dormo e passeggio, niente di più. Arriva Capodanno brindo con l’inglese e mezza lattina di birra marcia, vado a letto.
Finalmente il tempo del surftrip è scaduto, è ora di andarsene…di lasciare alle spalle questo posto. Faccio le valige. Torno a Casablanca – buio – freddo – aereo. Già mi sento meglio. Non tremo più.