“Alessandro Ponzanelli, free surfer from Italia” è il titolo che darei alla bio del Ponza, che incarna perfettamente lo spirito di chi surfa senza preoccuparsi del giudizio altrui. Che sia la giuria di un contest o un pubblico di quei social che mal sopporta, anche se durante il podcast Ale mi ha rivelato un lato del suo carattere che non conoscevo: “Sono una persona molto competitiva anche se il longboard è molto più un esercizio stilistico che competitivo. Dipende sempre molto dalle condizioni: mi è capitato di conoscere surfisti imbattibili a casa loro, ad esempio Oliver Parker che a Malibu e Rincon era un dio, mai visto un surf del genere. Poi andavamo a Biarritz e sembrava un pirla qualunque. Nel longboard bisogna avere la fortuna di trovare onde su cui ci si riesce ad esprimere”.
Le sue onde sono quelle della Versilia. Bagno Wanda, Marina di Pietrasanta. Sono i primi anni ’90, Alessandro Ponzanelli ha 12 anni quando prende la sua prima onda su una tavola: “Presi in prestito una 6.2 da Ario Bertacca (pioniere del surf italiano, ndr) ma ero una mezza sega, quindi la tavola galleggiava tantissimo”. Cresciuto in un contesto florido, uno stabilimento dove bazzicava il gotha del surf toscano e nazionale, Alessandro viene subito invitato a scegliere: long o short. Con la tavola lunga è portato, non ci mette a fare un passo verso (il nose di un) longboard. Visti i risultati del Ponza (pluricampione italiano, top 10 agli europei e in diversi contest internazionali) possiamo avere la conferma col senno di poi che abbia avuto ragione, ma lui dice che già all’epoca sapeva. Il motivo? “Mi facevo le seghe sui video di Joel Tudor, avevo subito capito come funzionava la storia per andare in punta”. Ah.
Bastasse guardare i video Ale, ma magari. Saremmo un paese di campioni.


Spostiamo lo sguardo verso altri lidi, stavolta oceanici: “Il Messico è un posto dove tornerei domani. A San Juanico, Scorpion Bay, ho preso delle condizioni epiche. Pensa che ero in permesso di lavoro retribuito da Sundek perché ai tempi lavoravo come commesso nello shop di Forte dei Marmi, e spesso riuscivo a farmi approvare progetti di campagne legate al surf. I colleghi mi hanno odiato”. Mi racconta del Senegal, dove una volta ha perso un volo perché non gli volevano imbarcare la tavola: “E alla fine l’ho dovuta lasciare lì. Ero furioso ma l’ho regalata ad un facchino che mi diceva di avere il figlio surfista”. E c’è anche quell’affascinante storia della missione a Capo Verde: “Avevo visto una foto su un magazine con un’onda perfetta, ma avevano fatto l’errore di lasciare un dettaglio riconoscibile: una chiesa. Siamo riusciti a trovare quel posto col Dindo (Marco Zappelli, ndr) ed è stato magico”.
Mi preme trascrivere un ultimo passaggio saliente della conversazione con Alessandro Ponzanelli. Trattandosi di un esteta della disciplina, quando descrive la tecnica io drizzo le orecchie. E fareste bene pure voi.
“I ragazzetti che surfano oggi pensano solo alla manovra, non gliene frega niente di come ci arrivano. Riguardandosi in video capirebbero che hanno un sacco di vizi. Con una tavola pesante come il longboard impari a stare nel punto giusto dell’onda, a capire come prendere velocità senza pompare”. Così parlò il profeta.



Tutte le foto dell’articolo sono di Luca Ponzanelli, @litoralis_project