Il mare: infinito agli occhi di chi guarda, rifugio dei nostri pensieri più folli. Per millenni il mare ha racchiuso in sé quell’ideale di bellezza che ci completa, riempiendo gli spazi vuoti lasciati dalla nostra impotenza rispetto al cosmo. Per molti il mare rappresenta la libertà, che pregustiamo sognando quel che ci potrebbe essere dopo l’orizzonte. Si può dire che in qualche modo il mare si è sempre presentato come l’ignoto di cui andare certi. La storia del genere umano intanto riportava ferite lì dove possiamo sentirci ancora padroni del mondo: la terraferma.
Non a caso, la narrativa occidentale ha da sempre definito il mondo come Pianeta Terra. Noi, ospiti di questa sfera magica, ci siamo presi di prepotenza il diritto di elevarci rispetto alle altre specie animali, additandoci il nome di ‘terrestri’ per distinguerci dal resto. Tuttavia, nel secolo scorso la prospettiva da cui guardavamo il pianeta è cambiata. Nel 1977, un sottomarino in esplorazione alle Galapagos scoprì qualcosa di mai pensato. A 2000 metri di profondità venne rilevata la vita: un sistema biologico articolato e vasto, generato da camini da cui esce acqua sulfurea calda. Da quel momento la luce, da sempre ritenuto l’elemento fondamentale per vivere, passò in secondo piano. Iniziammo ad avventurarci nello spazio alla ricerca di quei pianeti in cui, dove c’è oceano, probabilmente c’è anche vita.
Tutto ciò ci pone davanti agli occhi il problema di riconsiderare la Terra come pianeta terra e noi stessi come terrestri. Secondo quanto espresso dal filosofo Simone Regazzoni, autore del libro ‘Oceano: filosofia del pianeta’, sarebbe tutto legato a un costrutto culturale da cui a cascata derivano le varie sfere in cui l’umano interagisce con gli altri. La politica, prima fra tutte, è ancorata dalla notte dei tempi alla nozione di territorio, proprietà, un esterno e un interno, un amico e un nemico. In questo senso, siamo pervasi da un attaccamento continuo alla terra che ci ha sempre limitato nel rivalutare l’unicità del pianeta su cui viviamo, facendo della terraferma il campo di battaglia delle ambizioni egoistiche dell’umano.
Il mare non è assoggettabile, e forse è proprio questo l’ago nel pagliaio. Lì dove non siamo più in controllo della realtà, dove il tutto è immerso in un continuo fluire ingovernabile, ci sentiamo spaesati. La lucentezza verde-acqua del Pianeta Oceano, rincuorante, cessa di essere ospitale dal momento in cui ci addentriamo negli abissi e tutto diventa nero. Ed è in quel momento che la nostra posizione elitaria come ‘padroni del mondo’ viene annichilita dall’infinità degli oceani che ci circondano. Basta osservarci dallo spazio per comprendere appieno l’imponenza di questi ultimi rispetto alla nostra presenza: il pianeta infatti appare blu, rivela la sua dimensione acquorea, predominante in confronto al resto.
Quanto sia centrale l’oceano viene delineato, in primis, dalla biologia e dall’ecologia. La metà dell’ossigeno che respiriamo proviene da fitoplancton oceanico, così come la temperatura stessa del pianeta è controllata dagli oceani. Gli oceani assorbono la CO2 che emettiamo, producono le correnti che contribuiscono a creare il clima nordeuropeo. Se la loro temperatura aumentasse anche solo di 2 gradi, andremmo incontro a una catastrofe ecologica senza precedenti. Non è un caso, quindi, che la NASA abbia deciso di chiamare il nostro pianeta ’Ocean World’, arrivando a stilare una lista di possibili pianeti in cui la presenza degli oceani potrebbe garantire la vita.
Rivalutare, in questo senso, il pianeta Terra in nome di un Pianeta Oceano si rivela necessario per comprendere più a fondo da dove veniamo e dove dobbiamo dirigerci. Un cambio di approccio ci consentirà di essere più coscienziosi delle nostre azioni e della nostra effettiva rilevanza su questo pianeta, spingendoci ad agire in maniera più responsabile e rispettosa verso il mare. E sarà proprio dalle profondità delle nostre menti che arriveremo a comprendere quanto essenziali sono gli oceani: per noi, per la terra, per chi verrà in futuro.