Il surf piace e quando una cosa è apprezzata tutti vogliono renderla propria. Ma il surf dell’ultimo decennio ha un problema: la cultura. Nella sua storia è stato deturpato, scippato, scimmiottato e sfruttato fino all’osso per guadagnare appeal da entità esterne. Nessuno però, nemmeno il dio denaro, è riuscito a conquistarlo del tutto. Troppo selvaggio, troppo radicato nel cuore degli appassionati che lo praticano maniacalmente come se fosse una questione di vita o di morte. Elitario, tutt’altro che inclusivo e difficile da praticare: questo sport è forte di una cultura e di una tradizione difficile da scalfire. Ma si sa, ogni disciplina ha il suo tallone d’Achille e quello del surf è proprio la vanità di chi lo pratica.
La guerra e la diffusione, influenze dall’America con 30 anni di ritardo
La guerra nel surf ha giocato come sempre un ruolo da protagonista. Prima di tutto perchè lo scoppio del conflitto aveva obbligato gli uomini più forti ed in salute, ed i surfisti americani lo erano, ad arruolarsi per servire il loro paese. Le spiagge erano per la maggior parte chiuse ai civili o destinate alla protezione della costa. Venivano costruiti bunker e basi militari per scongiurare assalti dal mare e questo unito all’arruolamento rendeva di fatto il surf impraticabile in tempo di guerra. Questi fattori hanno accresciuto talmente tanto la voglia di surf che alla fine della seconda guerra mondiale le spiagge americane sono state invase dai giovani del paese. I periodi di congedo e la costruzioni di basi militari in giro per il mondo hanno sparpagliato i surfisti in ogni dove.
Come mi raccontava sempre mio nonno che intorno al 1950 lavorava alla costruzione della base militare americana di Camp Darby, vicino Pisa, non era difficile vedere a Viareggio “l’Ameriani” che venivano con i loro tavoloni a surfare sulle onde di Piazza Mazzini. Eppure i primi gruppi di surfisti italiani si vedranno apparire solo intorno alla fine dei 70’, quasi trent’anni dopo. Trent’anni di ritardo, che saranno mai? Beh, nel surf sono un’eternità: tecnologia, tecnica di base, cultura. Eccoci alla chiusura del cerchio che abbiamo aperto con il titolo di questo articolo.
Autodidatti, con attrezzature di fortuna e senza figure di riferimento da seguire, nel vecchio contintente e più precisamente nel nostro paese, il surf è cresciuto con piccole tribù che piano piano allargandosi sono venute in contatto tra loro. Usanze diverse che continuavano a svilupparsi senza modelli a cui ispirarsi hanno creato anche una spaccatura con la cultura che nel mondo era già ben formata e solida.
Cultura del surf: dall’insegnamento vis-à-vis di fratelli maggiori e bagnini ai campioni dei social
La surfing culture è ciò che tiene in piedi la nostra industria. Le fondamenta di questo movimento si reggono su leggi non scritte che le generazioni si tramandano fin dagli albori. Negli ultimi tempi c’è stato un ricambio di praticanti che però rispetto a quanto accadeva una volta, non arrivano dal mare ma dai social. Noi “vecchi” giovani ci siamo appassionati seguendo le orme dei bagnini, dei fratelli maggiori o dei genitori. Durante l’estate gli osservavamo sperando che prima o poi ci facessero salire su una delle loro tavole e ci spingessero sulle schiumette che rompevano più vicino a riva.
Prima di noi c’era un Mercoledì da Leoni, film che metteva in mostra il lato più ribelle del surf. A seguire arrivava Point Break, rappresentazione del lato criminale e più spericolato dello sport, quello ribelle. Oggi si osservano i role model attraverso lo schermo di un telefono. Belli, abbronzati, sempre in giro per il mondo in destinazioni incredibili. I brand marciano su queste caratteristiche emozionali per attrarre il pubblico generalista e vendere i propri prodotti o servizi. I giovani invece vedono i propri idoli come veri atleti. Il surf così si è trasformato radicalmente.
Il falso mito del surf per tutti fa girare l’economia
Oggi con il mondo delle gare in crisi e con gli atleti sempre più influencer, i social sono divenuti il principale mezzo di diffusione della surfing culture. Questo cambiamento sta facendo emergere un lato fighetto ed esclusivo che prima il surf non aveva mai mostrato. L’altra faccia della medaglia che piace alle aziende extra settoriali, riempie gli atleti d’oro e fa imbestialire i praticanti più core. Già perché spesso un atleta top del panorama che si focalizza su gare e performance è meno attraente di un influencer pseudo surfista che sulla tavola ci va decisamente peggio. Ed ecco che il divario culturale straripa come un fiume in piena. Il surf per i surfisti non vende, non è sostenibile e non dà possibilità di crescita al movimento. Di contro picco, come una rampa perfetta da air, il surf social si basa solo ed esclusivamente sul business. Chi cerca di vendere un servizio o un prodotto al pubblico che ama lo stile di vita dei surfisti non è interessato a raccontarne la storia, le regole e la cultura. Si punta dritti al sodo: un’esperienza di una settimana in una location scontata, gruppi di softop sguinzagliati in mare, foto al tramonto, vita in ciabatte ed il pacchetto è completo.
La realtà è ben diversa ma tra surfcamp, van life e smart worker nascono nuovi mostri
Fare surf ovviamente è ben diverso. Sacrificio e pazienza sono all’ordine del giorno, concetto che chi arriva dai social fa fatica a comprendere. Tutto e subito senza mezze misure, questa è la regola che vige nel 2023. Un mese a Bali e sei pronto a presentarti sulle line-up del mondo senza rispettare le precedenze e senza saper riconoscere i tuoi limiti. Decine di volte ci siamo ritrovati davanti il viaggiatore di turno che dopo esserti franato addosso anziché chiederti scusa, ti guarda male e ti dice: “Ma io le so le regole, ho surfato a Bali, alle Canarie e in Portogallo”. Vogliamo parlarvi chiaro e senza troppi giri di parole, se non accettate un rimprovero in acqua non potete praticare questo sport.
Abbiamo letto commenti sotto all’ultimo video sul localismo da far accapponare la pelle. Incuriositi da tali dichiarazioni ci siamo fatti un giro sui profili di alcuni dei guru del surf che hanno commentato e purtroppo dobbiamo confermare la nostra teoria iniziale. Manca la cultura, manca l’educazione e manca pure la conoscenza tecnica e teorica della materia. Non voleteci male, ma il surf in Italia sta diventando come il calcio, dove chi al massimo gioca nella partitella tra scapoli vs ammogliati si prende il diritto di poter criticare le gesta di chi magari ha vinto un mondiale. L’unica differenza netta è che nel calcio o negli altri sport più noti le regole sono chiare e oggettive, quindi non interpretabili.
Nel surf vige una sorta di anarchia che porta allo sviluppo di pratiche come il localismo che in tante circostanze sono utili, ma che in alcuni episodi risultano estremistiche ed antiquate. Nel prossimo articolo parleremo dell’ipocrisia che spesso affligge il surfista esperto e degli alibi creati da un localismo violento, contraddittorio e spesso non necessario.