Alla fine l’uomo più criticato (e presumibilmente potente) del mondo del surf è stato fatto fuori. Il 29 Giugno la World Surf League ha annunciato in un comunicato che Erik Logan è stato sospeso dall’incarico di amministratore delegato della lega. Da questa notizia sono scaturite mille mila speculazioni sui motivi e soprattutto sulle modalità sorprendenti di questo addio, che si consuma nel corso di un evento (in Brasile, guarda caso: ricordate cos’era successo al Surf Ranch?) e con la stagione agonistica 2023 ancora tutta da decidere. Solitamente le grandi aziende non fanno così, certe decisioni vengono programmate e si effettuano nei momenti opportuni. È certo che la separazione sia stata brusca e sofferta.
Come quando negli sport di squadra un allenatore lascia o viene allontanato a stagione in corso, sono stati individuati i cosiddetti traghettatori: Emily Hofer e Bob Kane, top manager di fiducia che già ricoprivano posizioni di rilievo nell’organigramma della WSL. Il nuovo amministratore delegato verrà presentato presumibilmente al termine del Championship Tour, dopo le Finals di Trestles. Saranno forse le ultime Finals? Dipenderà dal nome del prossimo Ceo. Il movimento vorrebbe un core surfer, possibilmente un ex atleta con indole da imprenditore, e non mancano opzioni di spessore: Kelly Slater su tutti, seguito da Ace Buchan, fondatore della startup surf AwayCo, la leggenda Barton Lynch e Josh Kerr. Vedrei bene anche Mick Fanning ma se nessuno ha ancora tirato fuori il suo nome, significa che il buon Mick preferisce starsene tranquillo a gestire gli affari personali e godersi la pensione. Nel mix dei candidati papabili Stab ha inserito anche manager come Pat O’Connell (Ceo di Florence Marine X), Bob Hurley (Fondatore di Hurley), Brooke Farris (Ceo di Rip Curl) e suggestioni come Makua Rothman e Fernando Aguerre (Presidente ISA). Per una scelta di discontinuità rispetto all’uscente Erik Logan, che si era costruito una carriera nel mondo dello spettacolo, mi aspetto che la WSL (nelle mani del miliardario Dirk Ziff) decida per un personaggio già influente e rispettato dalla surfing industry.

Le reazioni tra sarcasmo e vendetta: è ancora noi (i surfisti) contro loro (i businessmen)
Veniamo alle reazioni che la notizia del licenziamento di Erik Logan ha suscitato nel movimento. Abbiamo preso atto di diverse esternazioni pubbliche, anche abbastanza pesanti a volte. Tra sarcasmo, rabbia e critica costruttiva la sezione commenti di Stab si è trasformata in un vero e proprio forum. Il dibattito si è scatenato lì perché come spesso succede, gli autori di Stab riescono ad intercettare gli umori e solleticare il sentimento popolare. Peraltro ho ricontrollato ma la WSL non ha nemmeno diramato la notizia su Instagram, probabilmente per risparmiare a Logan un’ondata di insulti. Che comunque, puntuali, sono arrivati. Riportiamo i più simpatici:

Matt Biolos, fondatore e shaper di Lost Surfboards, riassume con sintesi e senso drammatico la questione: “Un bravo ragazzo, un brillante ragazzo, mai stato il giusto ragazzo”. Come liquidare la questione con classe e diplomazia, ma senza sottrarsi ad un giudizio.

Geniale l’ex surfista del CT Michael Rodrigues che ripaga Logan con la sua stessa moneta: “Non ha passato il taglio”. Così come Leo Fioravanti, anche Rodrigues (che è pure brasiliano) ha vissuto la sua pelle l’amarezza dell’eliminazione di metà stagione, una nuova regola introdotta proprio da Erik Logan.

Un altro shaper apparentemente lontano dal circo delle competizioni e del surf high-performance, Chris Christenson di Christenson Surfboards, interviene dicendo la sua: “Era ora! Sale vs Abiti…il Sale vince sempre. E la politica non è rock n roll”. Per il guru delle tavole stilose Christenson il licenziamento di Logan è una vittoria culturale dei veri surfisti contro quelli in abito che vogliono solo far business.

“Ho sentito che Bobby Martinez è disponibile”. Per chi non lo sapesse, Bobby Martinez è uno dei più strenui critici del surf competitivo. Rimane impressa nella pietra questa intervista rilasciata dopo una sua heat da partecipante al vecchio CT.
Kolohe Andino for president: 5 affermazioni tra inciampi e verità
Tra tutti i commenti sotto al post di Stab su Instagram, spicca il botta e risposta che Kolohe Andino ha intrattenuto con più appassionati, persone comuni che cercavano un confronto partendo da pareri contrastanti. Andino, nato nel 1994 a San Clemente, è stato uno dei surfisti più pagati e reclamizzati degli ultimi 15 anni: da Nike è passato ad Hurley per approdare infine in O’Neill, sempre con i due tori austriaci cuciti sul cappellino di ordinanza. La sua carriera agonistica non ha rispettato l’hype che si è generato intorno al biondissimo regular footer, il prototipo del surfista californiano. E proprio quest’anno Kolohe Andino, nel pieno di quelli che dovrebbero essere i migliori anni di un atleta, non è riuscito a superare il taglio di metà stagione. Si può presumere quindi che Kolohe abbia un minimo il dente avvelenato, ma alcune sue affermazioni mettono in luce problemi importanti, che la World Surf League e l’industria del surf devono risolvere per efficientare il sistema.
Analizziamo alcune delle risposte di Kolohe Andino:

Su ognuna di queste affermazioni si potrebbe costruire un dibattito strutturato della durata di ore e ore. L’ho fatto realmente, con Tommaso prima e con Riccardo (mio collega di telecronache a San Marino) poi. Sono d’accordo che si dovrebbe eliminare il taglio di metà stagione e che il Tour dovrebbe seguire le onde buone, anche se l’atmosfera di certe sedi dei contest (Brasile su tutti) aggiunge molta enfasi allo storytelling. La Final 5 a me piace, la trovo avvincente anche se ingiusta: bisognerebbe trovare un equilibrio. Gli show televisivi aiutano a codificare il surf in un linguaggio più alla portata del pubblico generalista, se progettati tenendo in considerazione la storia e le tradizioni dello sport possono dare grande beneficio. “Più atleti ad ogni livello” è un’affermazione pericolosa perché Kolohe dovrebbe sapere bene che già nelle Challenger Series a cospetto di un guadagno misero la competizione è spietata, perciò rendere sostenibile la vita da atleta diventa un’impresa. “Più pro junior” è un buono slogan ma come sempre, tra il dire ed il fare c’è di mezzo un mare di coperture economiche da trovare.

Kolohe Andino sostiene che l’unico modo per rendere le Final 5 oneste e legittime sarebbe stato svolgerle a Pipeline con 10 piedi, cioè quando il mare è epico, tubi pesanti. Non da tutti. Ad esempio se l’anno scorso le Finals fossero state a Pipe, Filipe Toledo non avrebbe mai vinto il suo primo titolo mondiale, ma io credo che l’abbia meritato. Col vecchio format della classifica a punti, Toledo avrebbe comunque vinto il mondiale. Mi fa sorridere che Andino definisca Trestles, il suo home spot, “un’onda da beginners”. Anche qui, dipende dai punti di vista: io ritengo che Tresltes sia l’onda che più ti permette di esprimere il surf competitivo, fatto di combinazioni di manovre sull’onda e in aria. Il tubo è l’essenza del surf ma se ci sono i tubi, come a Pipe con 10 piedi di swell, non c’è tutto il resto. Nella maggior parte dei casi il surf che vediamo in televisione nel CT oppure alle Olimpiadi è quello di Trestles.

“Il surf non venderà mai a quelli senza sabbia nei piedi e sale sulle spalle. Sbaglia la maggioranza a pensare il contrario”. Non sono per nulla d’accordo con Andino in questo caso e dico per fortuna, perché se il surf vendesse soltanto ai surfisti lui come noi saremmo fregati. L’industria del surf non se la sta passando bene in questo momento nonostante il numero dei praticanti continui ad aumentare di anno in anno. Costruire tavole, produrre costumi, pad e leash non è un lavoro semplice: ad alti costi di produzione non corrispondono margini di guadagno che giustifichino una forte specializzazione. Kolohe fa i conti senza l’oste: il surf senza i wannabe surfer (che possono col tempo convertirsi in surfisti appassionati) e le incursioni delle ricche realtà extra-settore fermerebbe la sua crescita. Possiamo tornare indietro, ai tempi dell’ASP, all’era pre Instagram. Possiamo farlo ma tutti a quel punto dovrebbero darsi una ridimensionata.

Qui Kolohe argomenta la sua idea che il taglio di metà stagione sia una fesseria, difficile dargli torto: “Come potevi pensare che Joao (Chianca) e Molly (Picklum) non fossero abbastanza forti da rimanere nel Tour se 12 mesi dopo esser stati eliminati dal cut erano in maglia gialla? (chi veste la lycra gialla è primo nel ranking mondiale)”. Game, set and match. Andino dice che vorrebbe 44 uomini e 24 donne nel Tour com’era una volta, perché tagliare così drasticamente il numero dei partecipanti invita gli sponsor a pagare soltanto i primi 20, 30 al mondo e scoraggia i più giovani. Poi lancia una provocazione su cui lo seguo al 100%: “Da genitore se avessi un ragazzino atletico che è bravo a surfare, cercherei di indirizzarlo verso altri sport. Puoi essere il 200esimo miglior giocatore della MLB (lega americana del baseball) e guadagnare stipendi a 7 cifre grazie a cui puoi assicurare un futuro alla tua famiglia”. È verissimo quello che dice Kolohe Andino ma temo che si stia contraddicendo: come può il surf vendere soltanto ai surfisti, che sono ancora un numero limitato (seppur in crescita, grazie anche agli odiati “tv shows” e affini), e sperare di attirare più sponsor, più investimenti, più pubblico? Se un movimento anziché includere tende per indole ad escludere, sarà difficile muovere più soldi. Superato il fascino iniziale che da fuori un profano può subire guardando al surf come una tribù chiusa, con il suo codice di regole e comportamenti.

Ultimate Surfer passerà alla storia come “the worst thing ever to happen to surfing” e va bene, fin qui ci siamo. Tutti d’accordo no? Esperimenti fallito miseramente. Andino critica anche “Make or Break” però devo prendere le distanze, sapete che ho divorato entrambe le stagione consigliandole vivamente attraverso queste pagine. A supporto del suo parere negativo porta il fatto che la serie sia stata interrotta dopo due stagioni, quando per altri sport “ne hanno fatte minimo 4”. Intanto per il tennis (“Break Point”) e per il golf (“Full Swing”) sono state confermate le seconde stagione, ma aspettiamo a parlare prima del tempo. La F1 con “Drive to Survive” è già alla quinta stagione ma c’è una cosa, oltre alla casa di produzione, che accomuna queste tre serie: sono state tutte comprate da Netflix. “Make or Break” invece è andata su Apple TV, che ha 25 milioni di iscritti contro i 232 milioni di Netflix. Va da sé che la penetrazione del prodotto televisivo sia stata di gran lunga inferiore a quella che potenzialmente il surf avrebbe avuto grazie a Netflix. Ma d’altronde la WSL avrà deciso di accettare l’offerta di Apple Tv (con Apple poi ha strutturato la partnership dell’Apple Watch), che immagino fosse economicamente più sostanziosa. Un’altra scelta sbagliata? Non potremo mai saperlo. E col senno di poi sono tutti bravi.