di Luca Filidei
Sarò sincero: quando diverse settimane fa ho concordato con la redazione di Tuttologic Surf di scrivere un articolo su Eddie Aikau, ho subito avvertito due sensazioni contrastanti. Da una parte l’entusiasmo di scrivere di un’icona del surf, un personaggio – o meglio, una persona comune, nel senso più positivo e genuino del termine – capace di irrompere nella straordinarietà, in acqua come sulla terra ferma. Dall’altra la responsabilità di descriverlo nel modo più accurato possibile, sottolineando la sua importanza nell’interessantissima cultura hawaiana e non solo, protagonista com’è stato di una corrente di “ricompensazione” (la cosiddetta seconda Hawaiian Renaissance) diretta verso il popolo locale e certamente difficile, se non decisamente improbabile, da replicare.
Poi però, ho ripensato a quel termine – “accurato” –, e mi sono convinto del fatto che in fin dei conti non fosse quello più corretto, perché in realtà quella che state leggendo è piuttosto un’interpretazione. L’interpretazione delle gesta di un uomo – ne sono convinto – impossibile da confinare in alcuna descrizione. Del resto, Edward Ryon Makuahanai Aikau, classe 1946 e conosciuto ai più semplicemente come Eddie, può essere senz’altro considerato in qualità di unicum della storia del surf, naturale successore – seppur con delle evidenti differenze – di leggende come George Freeth e Duke Kahanamoku, idolo assoluto dello stesso Eddie Aikau fin dall’infanzia trascorsa a Maui.
In fondo, se i primi due grazie alle loro gesta e alla loro intraprendenza costituirono le fondamenta della diffusione di questo sport negli States e in Australia (senza dimenticare gli excursus europei di Duke), Eddie Aikau, quasi a colmare un vuoto che si era formato nei turbolenti anni Sessanta, riuscì ad assumere il ruolo di leader dell’intera comunità locale in un momento particolare per la storia delle Hawaii e del mondo intero. Scrivo “particolare” per via dell’annessione, datata 21 agosto 1959, dell’arcipelago agli Stati Uniti d’America. Ma anche – e direi soprattutto – per quel clima tumultuoso e particolarmente preoccupante che stava accendendo come una miccia diversi conflitti interni. Tra locali e australiani, per esempio, senza scordare tutte le degenerazioni successive come quella del Kill Haole Day. In pratica si assisteva ad una “replica” in piccola scala delle tensioni che stavano dilagando nel continente. Gli anni Sessanta coincidevano con il decennio del movimento di Albany, dei Freedom Riders, della marcia su Washington e poi del reverendo Martin Luther King e del presidente John Fitzgerald Kennedy.
Anche nelle “scanzonate” Hawaii non c’era traccia né di ritrovi zen né di riunioni in stile boy-scout intorno ad un falò. Anzi nell’arcipelago l’agonismo esasperato dilagava, allontanando il concetto di surf dalla melensa e fuorviante allusione nei confronti della cultura Beach Bum, caratterizzata, lo sappiamo, da spensierati ragazzoni biondi e abbronzati pronti ad imbracciare le loro tavole a ritmo della hit Surfin’ U.S.A. No, non credete a quelle storie, gli anni Sessanta alle Hawaii erano ben diversi. Le competizioni, quasi un’illusione nel panorama di questa disciplina, stavano irrompendo prepotentemente nei vari spot. In Australia, a Manly, nel 1964 si tenne il primo campionato mondiale regolato da una grezza lega – la ISF World Surfing Championship – che aveva raggiunto degli accordi con diversi campionati di livello nazionale, tra cui la United States Surfing Association di Hoppy Swarts.
E poi come tralasciare l’autentica rivoluzione stilistica in atto? Il vincitore del contest di Manly, il pioniere australiano Bernard “Midget” Farrelly, assunse il ruolo di ambasciatore di un nuovo stile contraddistinto da aggressive manovre come i cutbacks, nulla di più distante dalla tradizione hawaiana dello Sport of Kings, lo stesso che aveva spaventato l’esploratore James Cook così come aveva incantato lo scrittore Jack London. Lì, nelle lineup di quello splendido arcipelago dove tutto ebbe inizio, i contrasti si accesero rapidamente sancendo l’accendersi di una diatriba.
In pratica, si stava assistendo alla nascita di una nuova era, un parere espresso da Bob McTavish e Nat Young sul magazine australiano Surfing World nel 1966, in seguito condiviso anche dal visionario John Witzig, entusiasta nell’assistere alle radicali manovre che i connazionali australiani riuscivano a compiere con gli shortboard. Proprio quelle che secondo Randy Rarick avevano definitivamente mandato in pensione i longboard e chi li utilizzava dopo l’inverno del 1967, considerato da molti un vero e proprio spartiacque generazionale.
E poi? Beh poi, nonostante la diffusione di una “politica” anti-competitiva che coinvolse lo stesso Young, c’era il Duke Kahanamoku Invitational Surfing Championship, quello organizzato per la prima volta nel 1965 a Sunset Beach in onore del Father of Modern Surfing. Il primo contest ad essere trasmesso in tv, sul programma Wide World of Sports della ABC con addirittura l’assistenza di elicotteri equipaggiati con telecamere di ultima generazione. Il primo ad offrire un premio di mille dollari al vincitore dando una parvenza di professionismo al surf. Il primo a riunire i migliori ventiquattro surfisti del mondo.
Per il giovane Eddie Aikau questo equivaleva al sogno di una vita. Solo un trionfo al Duke – e magari una stretta di mano con il leggendario Kahanamoku, l’uomo che sprigionava il vero spirito “aloha” – avrebbe chiuso il cerchio. Le premesse, però, non erano poi così rosee. La scenografia era quella descritta qualche riga fa. La “new generation” stava dominando le gare. Proprio come confermato da Jeff Hakman, californiano di appena diciassette anni che vinse il Duke del ’65, alla quale il protagonista di questo racconto non era stato nemmeno invitato. Eddie Aikau, nato nel 1946, in realtà era quasi coetaneo di Jeff (che è classe 1948), eppure quegli haole sembravano irraggiungibili.
In fondo erano gli stessi che stavano repentinamente trasformando il surf. E questo non solo per via di manovre e attrezzature rivoluzionarie, ma anche per la “scia” commerciale che sembrava seguirli. I Bronzed Aussie sarebbero diventati storia nel 1976, ma la “surfmania” californiana aveva già dilagato negli States grazie a Gidget (P. Wendkos, 1959), sancendo un’evoluzione ben rappresentata dallo shaper Bear (Sam Melville) nel cult di John Milius Un mercoledì da leoni (1978). Il surf, almeno nell’immaginario collettivo (e quindi commerciale), stava diventando parte integrante della cultura pop. Se negli anni Novanta c’era la “Pepsi Generation”, tra gli anni Sessanta e Settanta si poteva parlare di “Surf Generation” senza destare scalpore.
D’altro canto, Eddie, di carattere introverso e da sempre distante da questi aspetti, restava concentrato sul suo obiettivo, visualizzandolo come se fosse già realtà. Per quel sogno aveva dedicato tutto sé stesso, decidendo persino di abbandonare la scuola pur di restare vicino all’oceano. Una scelta perseguita nonostante il parere contrario di papà Sol, ex militare, e mamma Henrietta, casalinga con la capacità di zittire tutti con una sola occhiata. Ma per lui andava bene lavorare in un conservificio di ananas a Oahu. Così facendo, e con un risparmio pianificato come fosse un business plan, avrebbe potuto acquistare quello splendido longboard rosso che ogni giorno ammirava nella vetrina del negozio di Jack Shipley, l’Hobie Surf Shop. Disegnata dallo shaper Dick Brewer, appariva agli occhi di Eddie come lo strumento – no, definiamolo compagno – che gli avrebbe permesso di surfare le grandi onde della North Shore, così pericolose e allo stesso tempo estremamente seduttive, irresistibili agli occhi dei surfisti più audaci.
Eddie Aikau imparava da pionieri come John Kelly, George Downing, Greg Noll, Pat Curren, Peter Cole e Fred Van Dyke. Molto tempo dopo la frase “Eddie Would Go” avrebbe significato qualcosa di immenso, ma in quel momento, pensiamoci, si trattava solo di un ragazzo con grandi aspirazioni e un budget a dir poco limitato. Alla fine, convinto del talento del figlio, fu papà Sol a recarsi all’Hobie Surf Shop, per poi iniziare una contrattazione con lo stesso Shipley allo scopo di acquistare il famoso longboard rosso. Puntò sulla pubblicità che Eddie poteva promettere, cercando in prima persona di assicurare al figlio un supporto il più vicino possibile a quello degli altri competitor. Molti surfisti haole avevano sponsorizzazioni che gli garantivano attrezzature, surftrip, assistenza nella preparazione. Per gli Aikau, a causa dei problemi economici, questo non era possibile. E così, ancora una volta (se pensiamo alle difficoltà del trasferimento da Maui a Oahu per cercare lavoro), il “clan” Aikau cercò di superare l’ostacolo chiudendosi a riccio e restando unito. Il militaresco Sol, che manteneva la famiglia guidando camion, dimostrò di credere fortemente in Eddie e di sostenerlo con un’intensità rara. Shipley fu così convinto ad accettare un rischio. E alla fine il longboard rosso finì nelle mani del giovane Aikau.
Nessuno ancora lo poteva sapere, ma quella tavola sarebbe diventata uno degli elementi più emblematici del surf. Prevederlo, persino ipotizzarlo lontanamente, sarebbe stato impossibile. Certo, il grande Muhammad Alì sosteneva che “Impossible is Nothing”, ma in quell’epoca per Eddie quell’impossibile sembrava imponente come una delle gigantesche onde che si abbattevano sul reef di Waimea Bay. Il surf competitivo, caratterizzato da partecipazioni a invito, appariva ancora estraneo alla famiglia Aikau, quasi fosse un club d’élite destinato a pochissimi. Negli anni Sessanta poi, la seconda Hawaiian Renaissance doveva ancora iniziare e il fatto di essere un locale su un’isola in cui era diffuso a malapena il pidgin (idioma locale) non semplificava di certo compito. Alle Hawaii non c’era una segregazione ufficiale come quella che Eddie purtroppo sperimentò nel Sudafrica dominato dall’apartheid, ma le disparità erano comunque presenti. La lingua tradizionale era stata bandita dalle scuole, ad esempio. E in quelle stesse scuole si studiava principalmente la storia degli haole (i bianchi), tralasciando quell’antica, del re Kamehameha I o della regina Lili’uokalani. Senza dimenticare la progressiva e inesorabile dispersione delle tracce lasciate dal passato.
L’isola di Oahu – e Waikiki in primis – era ormai diventata la rappresentazione folkloristica del periodo. Dal 1968, grazie a degli incentivi studiati ad hoc, tra i quartieri di Honolulu giravano la serie Hawaii Five-O, quella originale con Jack Lord e James MacArthur. Una conferma di come le Hawaii stavano diventando sempre più centrali nel panorama culturale statunitense. Ora ne facevano davvero parte. Una specie di “alter ego” di Miami, sempre perfettamente edulcorato per rispondere a delle specifiche necessità. Allo stesso tempo però si assisteva all’emarginazione dei locali e dei loro simboli.
Una gentrificazione in atto, direbbero ora. Il Waikiki War Memorial Natatorium, ad esempio, un monumento costruito per ricordare gli hawaiani che prestarono servizio durante la Prima Guerra Mondiale, iniziava a degradarsi dopo anni di incuria. Fu chiuso temporaneamente nel 1963, per poi essere dichiarato inagibile alla fine degli anni Settanta. Inaugurato il 24 agosto 1927 per omaggiare la data di nascita di Duke Kahanamoku, rappresentava un luogo fortemente identitario per la comunità e ora, mentre le sue banchine collassavano in acqua, viene naturale pensare che anche Eddie Aikau lo abbia visitato diverse volte prima della definitiva chiusura.
Immaginiamo cosa possa aver provato. Viveva in un territorio la cui storia veniva in parte negata. Dopo l’exploit avvenuto con Duke – capace di vincere 3 ori e 2 argenti come nuotatore alle Olimpiadi – l’arcipelago si stava lentamente disgregando. C’era quindi bisogno di qualcuno che avesse la forza di ricompattare le Hawaii. Di stabilire un revival dello stile leggiadro che aveva contraddistinto le isole per secoli e secoli. In Brasile, con delle ovvie differenze, il grande Pelè attraverso il calcio era riuscito nell’impresa. La vittoria in Svezia nel 1958 era infatti riuscita ad incoraggiare l’intero Paese. Ma questo era un altro mondo. Un arcipelago disperso nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico. Com’era possibile avvicinarsi a quel tipo di campione generazionale? La risposta non poteva essere altro che il surf. E un aiuto lo diede la grande mareggiata del 1967.
Eddie all’epoca aveva già surfato qualche grande onda nella baia, ma le prospettive per quei giorni di novembre erano letteralmente fuori dall’ordinario. Waimea si sarebbe “accesa” in un modo unico, consentendo ad Aikau Aikau di mettere alla prova se stesso in un palcoscenico assolutamente straordinario, che forse non sarebbe stato più replicato. Con lui ci sarebbero stati i mentori di una vita: Peter, Fred e Greg, i pionieri che avevano “scoperto” la baia nel 1957. L’atmosfera, almeno per i surfisti, era speciale. Le swell viaggiava in direzione di Oahu a quasi 75 km/h. Il pomeriggio di domenica 19 novembre quei treni in corsa si scontrarono contro la barriera corallina della North Shore. L’acqua, un Everest di acqua, veniva catapultata in avanti, innalzandosi in onde alte fino a 15 metri. Le strade vicino alla spiaggia vennero inondate, spazzate via, così come i piani inferiori delle abitazioni, allagati a causa di un evento a cui nessuno aveva mai assistito. Due militari, uno a Sunset Beach e uno a Waimea, scomparirono nell’oceano e non vennero mai più ritrovati. Nella notte la mareggiata salì ancora di intensità, scuotendo come un rimbombante sisma le fondazioni delle case.
Viene spontaneo immaginare Eddie Aikau, che allora era già impiegato come guardaspiaggia, intento a ripensare a quelle due persone disperse e al fatto che forse le avrebbe potute salvare se fosse stato lì con loro. E poi alla sua concentrazione finalizzata ad affrontare la giornata successiva, quel lunedì capace di regalare una session leggendaria. Le premesse erano rispettate. L’indomani le onde erano sempre più grosse, al limite dell’essere surfabili. O meglio, molti le consideravano già off limits. Molti surfisti atleticamente preparati, sia chiaro. Perché in quell’anfiteatro naturale che prende il nome di Waimea Bay si stavano accalcando anche persone di ogni tipo: turisti, hippie, casalinghe, tutti riuniti sopra le scogliere che circondano la baia come delle tribune. Lo spettacolo era ovviamente nell’oceano. Quella distesa azzurra che minacciava la costa, che si spegneva dando l’impressione di volersi riposare. Riprendendo improvvisamente vitalità con quelle vette d’acqua che venivano lanciate in direzione della spiaggia. Lì, a contatto con le rocce, si levavano geyser che sembravano urlare – non certo suggerire né consigliare – di startene alla larga. Di lasciar perdere. Uno spazio dominato dalla natura. Fedele a quel paesaggio dove era nato lo Sport of Kings.
Veniva facile, quasi naturale, scuotere la testa, rimettere la propria tavolona sul van e tornare a casa. Diversi lo fecero. Eddie no. Salì sul suo vecchio Volkswagen Bug e si recò nella North Shore. Poi raggiunse la spiaggia di Waimea. Osservò l’orizzonte, la lineup. I punti migliori e quelli peggiori, convincendosi che sì, che in fondo ce l’avrebbe potuta fare. Chissà cosa pensavano le persone che stavano assistendo. Ma d’altra parte, questo ad Aikau sicuramente non interessava.
Si concentrò sulle onde. Le stesse che terrorizzavano gli altri. Le stesse che il suo spirito da soul surfer sembrava bramare. Iniziò a cavalcarne una. E poi successe. Eddie non stava surfando, piuttosto stava danzando su una spaventosa massa d’acqua su cui sembrava avere il controllo, che sembrava persino comprendere e anticipare. La sua tavola rossa, quella che tempo prima suo padre aveva comprato all’Hobie Surf Shop, scorreva fluida appena sotto il lip di un’onda che Buzzy Trent avrebbe misurato con un valore altissimo nella sua personalissima scala basata sulla paura. Lui, Eddie, con gli iconici pantaloncini bianchi e rossi, era invece un tutt’uno con l’ambiente. Parte attiva di quella scenografia che sarebbe stata immortalata per sempre da un fotografo appostato nelle vicinanze. Quella foto divenne così famosa da venir utilizzata sugli assegni della Bank of America, e poi sulla copertina di Sport Illustrated e del best-seller The Hawaiians.
Era nata una stella?
No, in realtà molto di più.
Gli hawaiani avevano trovato il loro eroe
La parte II della storia di Eddie Aikau in arrivo la prossima settimana.