di Lorenzo Brusco
Taghazout, un ex villaggio di pescatori situato sulla costa atlantica marocchina, ha richiamato negli ultimi anni un elevato numero di surfisti. La maggior parte viene dall’Europa, vola su Agadir con voli low-cost a prezzi stracciati, scappa dal freddo inverno europeo ma soprattutto cerca onde di qualità e una vita a basso costo.
Alcuni amici mi avevano parlato delle lunghe onde destre che srotolano sulla costa marocchina. Altre persone mi parlavano del costante incremento turistico a Taghazout, quindi ho deciso di recarmici per svolgere una breve ricerca di campo per la mia tesi in antropologia e geografia dello sviluppo. Sono partito con l’obiettivo di “scattare una fotografia” della situazione attuale ed investigare, dando voce agli attori locali e a ciò che i miei occhi hanno potuto osservare: impatti e benefici economici, ambientali e culturali causati dal turismo del surf sulla comunità locale.
Arrivato a Taghazout ad inizio Novembre 2022, in piena stagione di mareggiate, ho iniziato a ripercorre la storia del villaggio attraverso i racconti di alcuni degli abitanti. Mi spiegano che fino ai primi anni duemila, Taghazout si sostentava quasi esclusivamente con la pesca e qualche scambio commerciale. Ha successivamente conosciuto uno sviluppo economico ed infrastrutturale molto importante proprio grazie al turismo del surf. Taghazout, infatti, è ricca di spot che lavorano con una costanza quasi eccezionale nei mesi che vanno da Ottobre ad Aprile. Nel raggio di pochi chilometri è possibile trovare spot per surfisti di tutti i livelli, partendo da Anza fino ad arrivare a Boilers. A due chilometri a nord del villaggio si scorge Anchor Point, la magnifica onda che probabilmente ha fatto sì che questo posto diventasse così popolare negli anni: un’onda a dir poco spettacolare e purtroppo sempre più affollata.

I primi surfisti a Taghazout sarebbero comparsi negli anni Settanta, la maggior parte erano inglesi, francesi ed australiani, definiti dagli abitanti come “hippies”. I surfisti arrivavano nei pressi del villaggio con i loro furgoni nei quali spesso dormivano, oppure venivano ospitati in casa delle famiglie poiché non esisteva nessuna struttura alberghiera pronta ad accoglierli. Un giorno allo skatepark ho avuto la possibilità di intervistare Richie, un signore inglese che viene a Taghazout ogni anno da circa dieci anni. Mi ha raccontato che i primi ad avviare un’attività turistica alberghiera agli albori degli anni duemila furono proprio due ragazzi britannici. Da quel momento in poi la crescita di costruzioni ed attività alberghiere è stata sempre più forte. Negli anni, anche grazie o a causa dell’influenza e dei modelli europei legati al business dell’ospitalità, la popolazione locale ha intravisto importanti possibilità di crescita economica da raggiungere attraverso il soddisfacimento della domanda del turismo surfistico. Molte persone hanno cercato di approfittare della “corsa all’oro”, compreso il primo ministro marocchino Aziz Akhannouch, detentore del 25% della società Akwa Group, uno dei principali investitori nelle nuove enormi strutture alberghiere che sono sorte a ridosso di quella che adesso è chiamata Taghazout Bay. La forte domanda turistica, la fama e l’espansione del villaggio hanno innescato un fenomeno di gentrificazione che sembra oramai irreversibile. Infatti, non sono pochi gli abitanti che si stanno spostando da Taghazout alle montagne circostanti, oppure a Tamraght, per l’aumento dei prezzi. Questo fenomeno coinvolge soprattutto soggetti e categorie che non lavorano a diretto contatto con il turismo, come i pescatori ad esempio.
Il surf è stato, senza ombra di dubbio, il motore portante dello sviluppo turistico a Taghazout. È stato proprio in virtù di questa attività sportiva che sono state apportate delle modifiche sostanziali alla struttura del villaggio sia dal punto di vista della sussistenza economica che dal punto di vista sociale, culturale ed ambientale. Taghazout è diventato l’avamposto del surf marocchino, o addirittura africano, secondo (al momento) solamente a Jeffrey’s Bay in Sud Africa. Quest’anno a fine Ottobre per esempio, nel parcheggio di Anchor Point è stato organizzato il primo Surf Expo d’Africa, il quale prevedeva tre giorni di fiera del surf con trentacinque espositori sia locali che di grandi compagnie come Decathlon, con l’intenzione da parte degli organizzatori di puntare i riflettori su un settore in rapida espansione, il quale rappresenterebbe una leva di sviluppo sia per la regione che per il paese.


Gli impatti negativi ed i benefici sia economici che ambientali sembrano in una certa misura equipararsi, e soprattutto sembrano essere imputabili a politiche provenienti “dall’alto”. Il turismo surfistico sembrerebbe però innescare meccanismi socioculturali positivi o comunque innovativi. Il surf, come mi raccontano alcuni locali, ha portato a Taghazout un’apertura generale di mentalità, la quale ha visto negli anni varie conseguenze.
In virtù di una ricerca da parte dei surfisti di onde remote con poche persone, negli anni Settanta, come abbiamo già detto in precedenza, i primi surfisti sono arrivati a Taghazout e sono entrati a stretto contatto con le famiglie del villaggio. Daniel, un altro signore inglese che è venuto a Taghazout per la prima volta alla fine degli anni Ottanta, mi racconta che quando ha raggiunto per la prima volta Taghazout dormiva in casa dei pescatori. Le persone del villaggio non avevano un rapporto di svago con il mare, tantomeno con la spiaggia: non era possibile vedere donne in giro se non nelle case e nessuno conosceva l’inglese. Oggi, grazie ad un progressivo scambio tra popolazione locale e surfisti, è totalmente diverso: quasi tutti parlano un po’ di inglese, il mare è vissuto come svago e sport grazie al surf, è possibile vedere donne che lavorano nei ristoranti o negozi del villaggio. Inoltre, alcune ragazze sono coinvolte in progetti relativi al surf o allo skateboard. A proposito di skateboard, storicamente un derivato del surf, si può notare come questo sport stia apportando un grande beneficio alla comunità dal punto di vista culturale. A Taghazout, nel 2017 è stato costruito uno skatepark da parte di più di cento volontari europei e marocchini. Il progetto è stato portato avanti da Make Life Skate Life, un’organizzazione non governativa che dal 2013 ha contribuito alla costruzione di skatepark in dodici paesi del mondo. Lo skatepark rappresenterebbe dunque un luogo d’incontro e di scambio fondamentale. Un luogo sorridente, dove il rumore di sottofondo è fatto di moltitudini di lingue e di ruote che scorrono sul cemento, mentre dall’oceano, in lontananza, arriva l’eco delle onde che si infrangono sulla roccia. Grazie ad alcune interviste svolte a ragazzi e ragazze locali, ho potuto comprendere quanto la cultura del surf e dello skate abbia potuto aiutare anche le ragazze da un punto di vista di emancipazione in un paese dove la parità di genere non è minimamente contemplata.
Riassumendo, possiamo dire che il surf ha portato ad uno scambio socioculturale interessante. È difficile, e forse ingiusto, affermare con certezza cosa ci sia di positivo e cosa di negativo nel cambiamento quando non si vive immersi nella quotidianità di un luogo e di una cultura. Indubbiamente, ascoltando le parole dei locals il surf ha portato, come detto in precedenza, ad un’apertura mentale, ad un coinvolgimento ed un abbraccio di culture diverse e alla condivisione di nuove passioni che il classico turismo balneare difficilmente riesce a dare. Il surf ha fatto sì che prendessero vita molte iniziative portate avanti proprio dalle nuove generazioni, vogliose e speranzose di cambiamento. Inoltre, il surf sembrerebbe costituire una valvola di sfogo e di speranza sia per i ragazzi che per i genitori.
Le valutazioni dei pro e dei contro, anche sul piano socioculturale non sono semplici. Il surf ha fatto sì che il rapporto con l’oceano, per la comunità locale e soprattutto per le nuove generazioni, cambiasse. La sottocultura del surf ha portato con sé un vento di novità. Novità che per un villaggio come Taghazout potrebbe tradursi in vedute più ampie, in nuove speranze, in una possibilità di avere uno stile di vita sportivo e quindi più sano, in un piccolissimo passo verso la lunga strada per la parità di genere. Al tempo stesso credo che le politiche dovrebbero andare a tutelare la popolazione locale per quanto riguarda la gestione delle risorse idriche, l’aumento del costo della vita e la crisi ambientale ed abitativa. Inoltre, sarebbe senz’altro interessante approfondire l’impatto culturale dal punto di vista dell’esportazione e la conseguente assimilazione dell’identità e dell’habitus del surfista all’interno della comunità di Taghazout.

Ancora una volta dal surf sembra risultare qualcosa di diverso e contraddittorio. Ancora una volta il surf si rivela pregno di significati per chi lo pratica, per chi lo “esporta” e per chi vive di esso in maniera indiretta. Ancora una volta è importante cercare di procedere con coscienza e cautela vista la prospettiva di crescita esponenziale della pratica di questo sport e la continua espansione verso altri paesi dell’Africa.