Il World Tour del 2022 non poteva iniziare con una notizia più destabilizzante. È il 25 gennaio, qui in Italia ci stiamo rilassando sul divano scrollando Instagram. Immersi nei nostri pensieri vediamo un post di quel brasiliano che a tanti non sta troppo simpatico, forse per il fatto che quando vuole vincere si porta a casa la coppa surclassando chiunque con il suo surf estremo e chirurgico. Gabriel Medina si ritira dal mondiale, almeno per il momento.
Onestamente non me lo sarei mai aspettato. Ho sempre sostenuto che i rappresentanti della Brazilian Storm, come già spiegato in altri articoli, si distinguessero per costanza e perseveranza. E invece il tre volte campione Medina ci riporta coi piedi per terra, facendoci capire che sarà pure brasiliano ma non è un alieno e nemmeno una macchina da competizioni.
Quale sia il motivo di un ritiro poco importa: il messaggio che ci deve arrivare è che anche agli atleti di alto livello, in quanto umani, spetta il loro spazio e tempo per combattere le pressioni quotidiane. Spesso tra di noi ci lamentiamo perché vorremmo vivere la vita del nostro surfista preferito, metti che svegliarsi con Pipeline davanti come John John non sia poi così male.
Ma guardiamo oltre alla facciata della villa sulla spiaggia alle Hawaii: rovesciamo la medaglia. Osservando la situazione da un altro punto di vista capiremo che la vita del Tour ha anche tutto un aspetto psicologico da gestire, tra aspettative proprie, di chi ci sta attorno e dei media. D’altronde Medina non è il primo campione a prendersi una pausa dalle competizioni.
Facciamo qualche esempio extra-surf. Durante le Olimpiadi di Tokyo, la famigerata ginnasta Simone Biles, per ben quattro volte oro olimpico, si ritirò dalla gara per problemi legati ad uno stato di instabilità psicologica. Allo stesso modo Naomi Osaka, la tennista più pagata di tutti i tempi, non si presentò al Roland Garros lo scorso anno, affermando di aver sofferto di depressione dovuta ai postumi della vittoria agli US Open nel 2018.

Ritornando al nostro mondo, vi pongo quindi una domanda: la vita da pro surfer è veramente quella che tutti sogniamo? Prima di darvi/darmi una risposta vi invito a riflettere con me sui pro e i contro della ‘life on tour’ e sulle conseguenze psicologiche che può avere. Per quanto riguarda Gabriel Medina in particolare, voci dicono che tra le cause scatenanti ci sia il divorzio dalla moglie, ma non è un particolare influente per l’obiettivo di questo articolo.
Pro e contro della vita da pro
In tutti gli sport c’è un percorso che ogni futura promessa affronta prima di diventare un professionista a tutti gli effetti, è quella strada che ad un certo punto ti impone rendere la tua più grande passione un lavoro. In realtà, per quanto riguarda il nostro mondo, anche da free surfer è possibile vivere della propria passione. Tuttavia non sono molti coloro che ci riescono, soprattutto perché gli sponsor difficilmente notano qualcuno al di fuori dei radar delle competizioni (a meno che tu non sia il Dane Reynolds di turno).
Guardando la classifica dei 10 surfisti più pagati al mondo troviamo solo professionisti o ex professionisti, come Mick Fanning e Julian Wilson. Prenderò Gabriel come esempio più eclatante, ma il ragionamento che faremo assieme potrà essere esteso alle migliaia di surfisti che sognano di qualificarsi per il WSL.
Solitamente la carriera di un potenziale campione mondiale inizia già in giovane età. Se poi guardiamo il curriculum di Medina, noteremo che è un caso particolare. A 17 anni (nel 2011), al primo anno di World Tour, si portò a casa ben tre tappe del circuito: Hossegor, il Portogallo e San Francisco. Da lì la sua carriera è stata in ascesa, fino ad arrivare a vincere il terzo titolo mondiale nel 2021. È chiaro che dopo 11 anni di Tour una pausa gli spetti.
Detto ciò, elencherò prima i vantaggi di una vita simile, per poi passare ai contro. I primi che mi vengono in mente sono i classici per cui tutti vorremmo essere dei pro surfer: un quiver nuovo studiato ad-hoc per ogni tappa, mute, costumi, abbigliamento, viaggi e video pagati. Inoltre contratti da centinaia di migliaia di euro, se non milioni, alimenterebbero il nostro portafoglio. Questo solo per quanto riguarda l’ambito surf. Se, come a Gabriel Medina, si aggiungono sponsor non surf-related, avremo pure macchine e cellulari forniti da sponsor come Audi e Samsung.
Per ciò che concerne il Tour sì, sarebbe fantastico fare 10 mesi all’anno in giro per il mondo solo per gareggiare e fare ciò che più amiamo. In quest’ottica avremo l’occasione di surfare sempre onde diverse, in posti fantastici e nel miglior periodo in cui beccare delle swell di qualità. Guardiamo la controparte adesso.
Come già detto in precedenza, i pro surfer del Tour non sono macchine da competizione: sono esseri umani. E come tali hanno bisogno dei loro spazi, delle loro sane abitudini, di circondarsi di persone a cui vogliono bene. Purtroppo però, essendo dalla parte del pubblico non ci rendiamo conto che la vita in Tour possa avere delle ripercussioni sul benessere psicofisico dei nostri supereroi.
L’oscurità che divora i campioni
Vari studi hanno provato che gli atleti professionisti sono più predisposti delle persone non sportive alla depressione. Questo accade quando le richieste funzionali, fisiche e psicologiche, si sommano alla pesantezza dell’ambiente in cui essi si esibiscono e dal quale dipendono. E con il termine “pesantezza” non mi riferisco solamente alle 10, se non 11, tappe del WSL a cui un Medina deve partecipare per poter vincere il titolo mondiale.
Sono i media, gli sponsor, i fan e il pubblico stesso a rendere un piatto difficilmente digeribile ancora meno leggero. Inoltre, quando si parla di atleti di così alto livello, è facile che ci siano anche degli obblighi o degli obiettivi contrattuali che bisogna rispettare. Non a caso nel Tour ci sono surfisti che da un anno all’altro si ritrovano senza sponsor. L’essere parte di un’élite, gli infortuni, il sovrallenamento, riuscire a far combaciare la propria identità con quella del personaggio che si è costruito attorno, la necessità di vincere anche per motivi economici, le richieste tecniche ed il terrore del fallimento: sono tutti fattori che contribuiscono ad accrescere l’impatto che lo stress ha su un atleta.
Da questo punto di vista, quindi, la vita da pro cambia totalmente aspetto. Non è più solo tavola, viaggi e mute gratis. In questo modo, il lato oscuro della vita dei nostri sogni si fa spazio nella quotidianità che Medina, una persona come tutte, desidera vivere. E così come Gabriel, altri super medagliati hanno dovuto fare i conti con i propri fantasmi dopo anni di carriera alle stelle, addirittura rischiando di non uscire da quel loop frustrante e doloroso. Ci tengo a ricordare l’intramontabile docu-film “Kissed by God”, in cui si dice che nelle ore precedenti alla sua morte Andy Irons volesse solo tornare a casa da sua moglie e suo figlio per godersi la sua famiglia.
Per concludere, vi invito a rifletterci bene su la prossima volta che direte ‘quanto vorrei avere la vita del mio pro surfer preferito’. Quello che ci viene mostrato è solo la facciata di un muro fatto di sacrifici, difficoltà, frustrazioni, aspettative e pressioni: non lasciatevi ingannare da quello che viene mostrato sui media. I pro surfer sono persone come noi, che necessitano della stessa dose di casa e tranquillità di cui abbiamo bisogno tutti quotidianamente, magari lontano dalle telecamere del WSL.