Dopo Filippo Orso ho il piacere di presentarvi un altro ospite ligure doc: Jacopo Causa, 28 anni, from Varazze Town. Shaper artigiano cresciuto professionalmente in Australia, vena ribelle e guizzi da artista, il fondatore di CJ Surfboards si distingue nel panorama nazionale per i continui richiami a mondi culturalmente distanti dal surf contemporaneo: “Sono venuto su tra skate, musica, concerti di punk hardcore, centri sociali…era un bel devasto”. E se gli chiedo di scegliere tra surf e skate, non esita un attimo: “Sinceramente preferisco l’ambiente dello skate”.
Interessante capire allora come sia finito Jacopo a costruire tavole con cui lui per primo si diletta tra le onde. Questa storia si svolge a Varazze, ricordiamolo, una cittadina di 12.000 abitanti in provincia di Savona e casa di alcuni degli spot più qualitativi d’Italia. CJ conferma: “Con la mia ballotta andavamo in skate da piccoli, ma spesso finivamo sulla passeggiata lì difronte alla Secca mentre i grandi erano in acqua a surfare. In più lo shop di riferimento è sempre stato il Varazze Surf Shop, quindi c’era tanta contaminazione. Durante una delle classiche mareggiate di Ferragosto mi hanno messo una tavola in mano e da lì delirio”. In queste anticipazioni del podcast mi piace tantissimo riportare fedelmente certe parole usate dall’ospite, vengono fuori sfumature del linguaggio caratterizzanti. Tra gli shaper con cui ho avuto a che fare, Jacopo è quello con il retroterra culturale più interessante perché porta qualcosa di diverso.
Comunque shaper a meno che tu non sia figlio d’arte non si nasce (soprattutto in Italia), ma si diventa quasi sempre in seguito ad un viaggio di svolta. Racconta CJ: “Finché sono stato a Varazze non mi è mai passato per la testa di fare le tavole. Mi riparavo le mie e basta. Finito il liceo ho lavorato la stagione per mettere da parte i soldi e volare in Australia. Pensa che non ero mai stato sull’oceano prima. Lì era pieno di ragazzi, pool per lo skate sul mare, onde ovunque: ho perso la testa”. Jacopo è rimasto un anno in Australia, stabilendosi a Yamba, paesino nelle vicinanze di Byron Bay: “Non ho mai toccato una tavola, non me la sentivo. Guardavo e facevo domande. È stato scioccante vedere che in Australia lo shaper viene considerato come il panettiere da noi, un lavoratore come un altro”. Rimane talmente stregato dall’atmosfera da tornare giù una seconda volta, ma in questo caso parte con l’obiettivo di imparare le basi del mestiere.
Parlando delle tavole di CJ Surfboards, Jacopo mi dice di essere uno che va a periodi, di non aver mai tenuto una strada per troppo tempo: “Le onde di Varazze sono adatte a thruster performanti quindi ho iniziato così, facevo solo shortboard bianchi super puliti. Poi invece mi è presa la fissa per i fish ed ho cominciato a sperimentare con i colori. Tiro fuori abbastanza spesso grafiche colorate perché mi piace portare un po’ di arte nel surf, è un elemento che smorza la noia”. Gli chiedo se sarebbe in grado di riconoscere la miglior tavola che gli sia mai riuscita: “Sai che forse ce l’ho? Un twin-fin con round tail e channels, una tavola stravista in stile Torren Martyn. Ma funziona. Ha ancora il leash attaccato, la uso da 2 anni”.
Più avanti nella conversazione finiamo in un dibattito con posizioni contrastanti, uno scambio aperto e formativo sulle differenze tra piccoli shaper artigiani e grandi shaper con produzioni in serie e brand che vendono da soli. Salta fuori il nome di Thomas Bexon, tra i preferiti di CJ, opposto a quello di Christenson: “Che non shapa nemmeno più, ormai è un brand” – commenta Jacopo. La sua critica nei confronti dei marchi più rinomati della surfing industry ha un fondamento più che altro morale, ma secondo lo shaper di CJ Surfboards sono evidenti anche delle pecche strutturali: “Nelle tavole fatte in serie non trovi la stessa cura, basta avere occhio per accorgersene”.
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