Quando c’è una piaga aperta nel mondo del surf siamo sempre pronti ad infilarci il dito. Negli ultimi giorni scorrendo Instagram riflettevo su una cosa: perché cosi tanti mediocri surfisti italiani si lanciano alla disperata ricerca dello sponsor? Per tutta la mia infanzia ho giocato a calcio. L’ho fatto a buoni livelli ma di certo non ero un fenomeno. Ripensando a quei giorni, mi è venuta in mente che ogni tipo di attrezzatura di cui avessi bisogno dovevo comprarmela. Come me anche quelli molto più forti. Anche i ragazzi che erano nel giro delle nazionali si compravano le scarpette o i parastinchi, e costavano molto meno delle tavole da surf o delle mute.
Fatti i conti e tirate le somme ho pensato: com’è possibile che un brand di surf abbia interesse nello sponsorizzare così tante persone? Considerando il costo dell’attrezzatura e la difficile reperibilità dei materiali dovuta alla crisi del covid e all’aumento della richiesta da parte dei consumatori, anziché diminuire gli sponsorizzati sono magicamente aumentati.
Giovani
Partiamo dai più piccoli. Vedo spesso su Instagram giovani surfisti italiani e non che taggano nelle loro foto i profili dei brand più famosi al mondo. Molte volte lo fanno con indosso una muta di un brand e altri 5 o 6 marchi taggati all’unisono. Da spettatore mi domando: perché? Forse lo fanno perché vorrebbe essere davvero sponsorizzati da quei brand e così sperano di farsi vedere in qualche modo. Andando più a fondo però, spesso dietro a certe decisioni c’è la volontà del genitore, che vedendo altri ragazzini sponsorizzati non accetta che il proprio figlio sia da meno e le prova tutte pur di attirare l’attenzione. Da qui si passa allo step due: il finto sponsor.
Come funziona? Vado al negozio e compro soltanto mute di una marca. Il negoziante, magari amico, mi fa uno sconto del 30%, attacco gli adesivi sulla tavola e ringrazio il brand tramite il profilo di mio figlio. Compro una tavola e ringrazio lo shaper. Ma seriamente pensate che la gente creda che Channel Island o Pukas vi regali una tavola? La maggior parte dei professionisti paga le tavole o le ha in comodato d’uso, figuriamoci se le regala ad un ragazzino che sta imparando a surfare. Sembra fantascienza, ma purtroppo la corsa all’adesivo e alla sponsorizzazione dei surfisti italiani è una cosa molto più seria di quello che sembra. Il mondo dei social network bombarda in continuazione i nostri occhi con immagini spettacolari miste a stereotipi che diventano uno status da seguire.
La corsa allo sponsor è una conseguenza diretta della trasformazione che il surf sta avendo negli ultimi anni. L’ambiente sta diventando sempre più simile a quello del calcio. Mi tornano in mente le sceneggiate che vedevo fare ai padri di qualche mio compagno di squadra perché il figlio scarso non giocava e che pur di farlo giocare compravano le divise o i palloni. Da amante di questo sport non avrei mai pensato che si potesse arrivare a tanto. D’altra parte mi rassicura il fatto che è un trend dannoso per i giovani ma fine a se stesso, i brand più che mai fanno selezione, un pò come il mare. Quando conta ad emergere tra i surfisti italiani sono sempre i soliti, giovani e silenziose speranze del nostro movimento.
Adulti
Pensate che crescendo con l’età questa moda finisca? Vi sbagliate. Anzi, si amplifica. A caccia di notorietà e affamati di visibilità, i surfer cresciuti non accettano che qualcuno più bravo di loro abbia un adesivo sulla tavola ed eccoli a millantare false collaborazioni sulle autostrade dell’internet. Prima di fare questo lavoro full-time, ho lavorato per anni in uno dei negozi di sneakers migliori d’Italia. Essendo uno dei migliori, i quantitativi d’ordine erano davvero importanti e quindi negli anni sono venuto a conoscenza dei responsabili marketing dei brand più in voga, tra i quali si insidiavano anche due noti marchi di calzature da surf e skate. Volete sapere quanti dei surfisti che vantavano sponsorizzazioni da questi brand erano realmente supportati? ZERO. Addirittura alcuni di questi brand all’epoca non avevano più neanche il team europeo.
Conclusione
In conclusione quello che sembra un trend subdolo e sciocco, è diventato in realtà molto dannoso per il movimento del surf italiano ma anche mondiale. In un mondo dove tutti si sentono influencer, i brand approfittano di tutta questa pubblicità gratuita che l’utente social offre non solo a costo zero, ma addirittura comprando i prodotti.
La cosa più sciocca per l’appunto è pagare per fare pubblicità. Qualche anno addietro avreste mai pensato di comprare una muta e di ringraziare il brand promuovendolo e non ottenendo niente in cambio? Oppure, per fare un esempio più assurdo: comprereste mai una lavatrice ringraziando il produttore per averla messa in vendita? Per me che lavoro con le aziende è follia pura. Purtroppo spesso mi trovo a combattere con colleghi che offrono prestazioni in cambio di visibilità. Comprendo quindi il malcontento di quei surfisti, giovani e adulti, che nonostante il talento fanno molta fatica a trovare qualcuno che li supporti. Ne abbiamo parlato nel podcast con uno dei maggiori esponenti dei surfisti italiani. Roberto D’amico.
Mi dispiace perché al momento non vedo una soluzione: in un mondo dove la visibilità è diventata importante come l’ossigeno, la corsa allo sponsor non finirà mai. Da amante di questo sport, spero che i genitori capiscano che un ragazzo deve percorrere la propria strada e che l’adesivo sulla punta di una tavola non è un vanto, ma un riconoscimento che va meritato attraverso sudore e sacrificio. Non illudete un bambino che ama il mare. Ai più grandi chiediamo: ma è lo sponsor che vi rende surfisti o la passione per il mare? Perché spesso sembra che uno surfi soltanto per quel maledetto adesivo sulla punta della tavola. Fermate la vostra corsa allo sponsor e vi divertirete di più. Garantito.