Ogni surfista ha provato almeno una volta nella vita a fare un lavoro che gli permettesse di avere abbastanza tempo per potersi godere le onde. I lavori stagionali legati al turismo balneare o montano sono stati per anni la soluzione più gettonata. Sei mesi in apnea, sgobbando spesso come uno schiavo: doppi turni, alzatacce e nottate che però ti permettevano di guadagnare come se avessi lavorato per un anno interno. Un esempio? Il bagnino. Dalla Liguria alla Toscana passando per la Romagna, chi di noi non ha mai avuto un bagnino surfista?
Sono cresciuto in uno stabilimento balneare dove il bagnino lavorava l’estate per scappare in Indonesia durante l’inverno. Qualche anno dopo decise di aprire una propria attività a Bali e di stabilire lì la sua vita. Qualcuno di voi lo avrà sicuramente incontrato, si tratta di Nicola di Casa Asia.
Come lui in tanti hanno scelto poi di non tornare, sfruttando i momenti economici favorevoli (e ciclici) in cui conviene aprire un’attività all’estero. Fare l’imprenditore non è per tutti, c’è chi continua l’alternanza libertà-lavoro, ma chi ha vinto la sua scommessa adesso vive il sogno di ognuno di noi. Fino a 10 anni fa era comunque molto più difficile intraprendere quella strada, costruire una rendita sul digitale non era immediato come lo è adesso. Instagram, Facebook e Google stavano cominciando a trasformarsi nelle gigantesche agenzie pubblicitarie che sono oggi. I paesi dove c’era una notevole quantità di onde erano spesso sottosviluppati, non era affatto assicurato poter contare per dire su una buona connessione internet e su dei servizi sanitari essenziali. Un discorso diverso invece va fatto per le centinaia di italiani che per amore del mare si sono spostati negli Stati Uniti o in Australia, sbarcando il lunario come camerieri o pizzaioli ma con il benefit di onde da sogno durante le pause.
Il Covid e la nuova era digitale
Con lo sviluppo e la diffusione delle tecnologie digitali, sempre più lavoratori-surfer hanno deciso di lanciarsi in carriere da professionisti e attività imprenditoriali svolte all’estero o dall’estero. Di pari passo quindi, molti lavori (e conseguenti modalità di svolgimento degli stessi) che prima sembravano utopici sono diventati realtà. La possibilità di lavorare a distanza, il cosiddetto smart working, ha convinto molti surfisti a spostarsi in pianta stabile nelle mete dove le onde erano più costanti. Un’usanza nata principalmente in America, dove è sdoganata da tempo soprattutto nelle multinazionali, e che ha contagiato in Europa prima i paesi del nord fino a scendere molto lentamente anche in Italia. L’accelerazione improvvisa e decisiva all’accettazione dello smart working è stata data indubbiamente dal covid, che ha obbligato le aziende a ridurre al minimo i contatti interpersonali negli uffici. Ma anche quando la cinghia delle restrizioni è stata allentata, parecchie realtà lavorative hanno deciso di non tornare più alla modalità in presenza 5 su 5.
Il lavoro e il tempo sono sempre stati due grandi impedimenti del surfista italiano, motivo per il quale fino a 5-10 anni fa il clima in acqua era ancora mediamente sereno, sicuramente più sopportabile. Questo comunque nonostante il costante e notevole di praticanti registrato negli ultimi vent’anni. Siamo arrivati al punto in cui è ricorrente e quasi stucchevole l’invocazione alla costruzione di piscine con onde o di reef artificiali che consentano di smaltire il traffico in mare. Non sono solo le grandi città italiane che si svuotano, ma anche i paesi europei vicini contribuiscono ad aggravare la situazione. Soprattutto negli spot liguri e con qualche incursione anche in Toscana, troverete nelle giornate buone orde di van con targhe tedesche, svizzere e olandesi. Ma se proprio proprio vi dovete fare delle ore di macchina no, perché non ve ne andate ad Hossegor?
Conseguenze dirette
Ma non è finita qui. La tendenza dell’aumento dei praticanti di sport all’aria aperta durante la pandemia ha mandato in affanno diverse aziende, anche le più grandi ed organizzate. Mega gruppi di produttori sportivi si sono ritrovati a dover gestire una domanda spropositata rispetto soprattuto a 1) la forza lavoro in campo, limitata dalle nuove norme covid 2) la scarsa reperibilità di materie prime. Come approfondito da Leonardo nell’articolo dedicato alle tavole da surf e la difficoltà di riuscire a produrle in tempi veloci, anche trovare una muta della taglia giusta è diventata un’impresa.
Ad ottobre, Leonardo era rimasto senza 4.3mm e che ci crediate o meno, tra Hossegor, Ericeira e Peniche non ha trovato una muta della sua taglia, una comunissima. Nei negozi italiani sono praticamente già terminate ancora prima di arrivare.
Meno lavoro e più tempo libero, sembra che lo smart working sia la soluzione più semplice per la pratica del surf. Avreste mai immaginato che l’incremento del traffico sulle line-up sarebbe stato frutto di una pandemia globale? Sicuramente l’industria ne gioverà, ma a che prezzo?