di Raffaele Saviano
Sono all’incirca le 6.30 di mattina quando i primi raggi di sole iniziano ad illuminare la mia Subaru station wagon, trasformata in casa mobile da 3 settimane. Vivo in macchina da quando mi sono lasciato alle spalle Sydney per iniziare un viaggio on road lungo la leggendaria Pacific Way, alla ricerca di onde da scattare.
Sydney è stata la mia casa per i primi 3 mesi in Australia. Arrivato a marzo ho trovato subito lavoro da Hayden Shape Surfboards stabilendomi fisso nelle Northern Beaches, Mona Vale per la precisione. L’Australia è veramente quello che l’America era una volta, una terra ricca di opportunità. Il primo periodo di ambientamento è stato strano, l’ho vissuto con amore e odio. Le condizioni atmosferiche rispecchiavano il mio stato d’animo: pioggia e freddo, con intervalli regolari di onde e giornate spese in riva all’oceano.
Era una domenica mattina quando dopo l’ennesima notte passata al freddo nel parcheggio dove lavoravo, inizio il mio viaggio. Un viaggio a tappe: alcuni punti segnati su Google Maps ma niente di più, avevo solo voglia di farmi trasportare dalle emozioni. Ad ogni fermata controllavo l’oceano, facevo un giro per entrare in sintonia col mood del luogo, e se mi piaceva prenotavo una notte in campeggio. Seal Rock, Diamond Head, Point Plomer, Coffs Harbour. Così per due settimane.
L’oceano si era messo in standby. Ha smesso di mandare per 2 settimane.
È Lunedì, l’inizio della terza settimana del mio viaggio on the road. Non faccio in tempo ad arrivare a Byron Bay che dopo l’abituale rassegna stampa mattutina delle app di previsioni, scopro che 3 giorni dopo sarebbe arrivata una bella mareggiata da sud. Durerà poco, pochissimo, ma almeno qualcosa si sta muovendo.
Apro Google Maps, ho una stellina a 70km da me: Snapper Rocks.
Arrivo a Rainbow Beach, Coolangatta per la precisioni. Ho deciso di viaggiare e spostarmi sempre la mattina, qua le strade hanno buche enormi, se ci finisci dentro butti via la macchina. Da Byron è un’ora abbondante di strada.
Coolangatta è una piccola città che affaccia sull’oceano, si trova nel mezzo del confine tra il NSW e il QLD. Un confine arbitrario, come se qualcuno avesso deciso a tavolino di tirare una linea lì, lungo il fiume che sfocia dietro Snapper Rocks. I parcheggi qui stranamente sono gratuiti, lo vengo a sapere da una allegra signora sulla sessantina, che alla mia domanda su dove fosse una macchietta del ticket mi risponde “here the parking is free, welcome to Queensland”. Sorrido, ringrazio e parcheggio fronte oceano.
Ho deciso d’arrivare il giorno prima per studiare lo spot e capire come mi sarei dovuto muovere una volta là fuori. L’onda di Snapper Rocks è una destra leggendaria, in rete si dice che l’aria compresa tra Snapper passando per Rainbow Beach e finendo a Greenmount Point (quasi 2 km) sia l’area per il surf più affollata al mondo.
Visto il clima perfetto, in attesa che la marea salga, decido di oziare in spiaggia. Il clima rispetto a Sydney è totalmente cambiato, là di notte la temperatura scendeva a 7 gradi, qua la notte dormo senza calzini. Passo il pomeriggio a surfare, c’è un bel metro e mezzo. Arriva il momento di decidere dove dormire e chiedendo in giro vengo a sapere che in QLD puoi dormire in macchina senza rischiare multe. Ovviamente non sul lungomare ma nelle strade laterali puoi farlo. Non so se crederci, ma la tento: trovo posto in un parco e ci passo la notte.
Mi sveglio la mattina presto, mi sento bene. Non sento tensione o dolori. Contrariamente a quanto si posso pensare, in macchina si riesce a dormire veramente bene. Arrivo sullo spot, sono uno dei primi. trovo parcheggio sulla collina in modo da avere un punto di vista su tutta la baia. Il picco di Snapper Rocks è lontano, sarà a circa 800 metri da me. Ad occhio nudo faccio fatica a capirci qualcosa: il sole è da poco albeggiato e da dietro illumina completamente l’onda e la baia. In lontananza, coperta da una coltre di nebbia mattutina scorgo i grattacieli di Gold Coast.
Uso il 70-200mm come binocolo, c’è già tanta gente in acqua e l’onda sta spingendo. Tiro fuori il cooker, mi preparo un caffe, bevo 1 tazza. Mi cade la moka, ciao caffè. Niente bis. Mi accorgo che come al solito l’ansia sta salendo. Non è paura ma ansia. Mi assale una sensazione strana, immagino che il lettore se è un surfista potrà capirmi: è come se là fuori stesse succedendo qualcosa che non vuoi perderti per nulla mondo, e ogni minuto in più speso sulla terra ferma è un minuto perso in acqua. Preparo lo scafandro, setto la macchina fotografica ed entro in acqua.
Mi accorgo subito che tutti gli studi fatti sullo spot il giorno prima sono un ricordo passato, l’oceano è in modalità river, c’è una fortissima corrente che fiancheggia tutta la riva. L’onda sta lavorando, e anche bene, il set spacca e crea una destra che si srotola per tutta la baia, sono riuscito a contare 5-6 sezioni, una wavepool naturale a tutti gli effetti.
Passato l’approccio con la corrente mi piazzo sulla terza sezione dell’onda o almeno credo, perché questo spot ti disorienta. Mi accorgo che sono lontano dal picco principale, tremendamente lontano, 400 metri almeno. Mi basta passare 10 minuti lì per capire che pur essendoci moltissime persone in acqua, il livello è basso, almeno nel terzo picco. Inizio a risalire verso il primo picco, supero il secondo e mi avvicino alla zona del take-off più impegnativo.
L’onda da vicino è spaventosa. Arrivano set enormi di colore turchese, il sole illumina da dietro questo spettacolo della natura trasformandone i colori. L’onda impatta su di una roccia lavica e il backwash di ritorno crea una specie d’effetto frusta che sembra quasi dividere in due l’onda, ma in un attimo si riforma e crea un tubo perfetto, lungo 3-4 secondi. Ad ogni tubo chiuso partono fischi, urla: sembra di essere allo stadio. Non fai in tempo a scattare e mettere giù la macchina che viene assalito dai surfisti in cerca di foto dopo l’ultimo tubo chiuso: “I just got the wave of my life”, l’ho sentito ripetere più volte. La giornata è di quelle epiche. È richiesta una precisione incredibile nel take-off, altrimenti vieni catapultato via come il ragazzo in foto.
Sul picco di Snapper ci saranno state 30 persone in un mix di donne, uomini, anziani e adolescenti con l’adesivo sulla tavola ben in vista. Trovo la mia comfort zone e tengo il picco a una cinquantina di metri da me, scatto solo in 35mm fisso ma avrei tanto voluto avere uno zoom tra le mani. Sentivo di essere stanco, non conoscevo lo spot, la misura dell’onda e poi la corrente mi continuava a spingere verso la riva. In tutto la mia sessione è durata 3 ore.
Fotografare quest’onda era un mio obiettivo: ce lo fatta. Anche se con il rammarico di non esser riuscito a colmare quei 50 metri dal vero spot da cui avrei voluto scattare. Nel pomeriggio come da previsione la misura è calata. Fatto 30 decido di fare 31, entro in tavola. Passerò poi la notte nello stesso parco della sera prima, la mattina dopo riorganizzo tutto e me ne vado a Nimbin.
P.S. Mentre scrivevo questo articolo ho trovato lavoro a Byron Bay, quindi mi fermerò per un po’ in zona. La prossima volta arrivo a Snapper Rocks 3 giorni prima, promesso. Ho 50 metri da recuperare.